Ethero

lunedì 30 novembre 2015

Rainbow Six Siege

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Sparatutto

  • Sviluppatore:Ubisoft

  • Data uscita:1 dicembre 2015

     

     

    Questa doveva essere una delle recensioni più interessanti dell’anno. Avevamo tra le mani un gioco attesissimo, con qualità tecniche da urlo e un gameplay finemente ricercato, capace di trattare tematiche attuali come quelle del terrorismo e dimostrare che i videogiochi, in quanto tali non hanno bisogno di nascondersi dietro a facciate di perbenismo che dovrebbero esulare da questo media. Ci credevamo davvero tantissimo, tanto da tesserne le lodi sin dal 2014, per poi arrivare ad oggi trovandoci per le mani un prodotto che non è che lo spauracchio di quel presunto capolavoro mostrato ormai due anni fa, arrivato come un fulmine a ciel sereno a distruggere aspettative e speranze.
    Come avrete notato il voto in questa recensione non è ancora presente perché la stabilità dei server è seriamente problematica al momento, con una beta che definire zoppicante è dire poco, e una quantità di bug tale da rendere impossibile valutare correttamente il prodotto. Daremo a Rainbow Six Siege ancora qualche giorno, il tempo necessario di inserire una patch al day one, e poi chiuderemo il sipario sulla questione, con la nostra valutazione che rispecchierà il prodotto presente sugli scaffali.
    La nostra recensione, comunque, esaminerà problematiche ulteriori ai semplici crolli tecnici e di stabilità online, guai che hanno minato sin dai primi momenti di gioco la nostra esperienza globale con Siege.
    Ci aspettavamo una produzione solida, che fondasse tutto su un gameplay affinato, ma avesse anche una rigida ossatura base per giustificare un titolo venduto a prezzo pieno, e invece non è stato così.
    Rainbow Six Siege è un gioco dai contenuti scarni che si presenta sul banco di prova con 10 missioni da giocare in solitaria, pensate per farvi prendere confidenza con le dieci mappe presenti e sperimentare le sole quattro modalità di base, una modalità Terrohunt da affrontare con altri quattro giocatori online contro l’IA e la modalità competitiva cinque contro cinque.
    Non esiste alcun singleplayer a fare da supporto, un netto passo indietro rispetto ai precedenti Rainbow Six e un segnale chiaro che viene lanciato subito ai fan di vecchia data: Siege non è un’evoluzione dei precedenti titoli della casa francese, è uno sparatutto lento, ragionato e strategico che si fa forte di un brand conosciuto ma ne prende le distanze sotto tantissimi aspetti. Dimenticatevi qualsivoglia forma di pianificazione o pretattica prima delle partite: tutto viene ora gestito in tempo reale all’inizio del match, con la comunicazione tramite voice chat che non solo risulta importante per godere del titolo ma addirittura essenziale nel caso ci si voglia divertire, e questo anche a causa della completa mancanza di una mappa strategica.
    Lanciamo quindi un avvertimento a tutti i giocatori casual là fuori: questo gioco non fa per voi, per riuscire a trarre il massimo da Siege è indispensabile avere altri quattro amici con cui giocare o il rischio è quello di scalfire solo superficialmente le meccaniche di infiltrazione e difesa proposte, unici elementi davvero validi del pacchetto.
    Giocando in singolo, infatti, le dieci missioni che fungono da tutorial proposte bastano da sole a far emergere quasi tutti i problemi che la produzione si trascina dietro: l’IA non è assolutamente curata a dovere, con grossi deficit strategici un po’ a tutte le difficoltà, arrivando addirittura ad essere snervante in modalità difficile: ha in pratica la capacità di spararvi da dietro ai muri senza alcun preavviso, in situazioni dove avversari umani non avrebbero mai potuto individuarvi e sostanzialmente bara per alzare l’asticella della difficoltà invece di mettere sul piatto routine comportamentali più efficaci.
    La varietà di modalità proposte poi non fa che peggiorare la situazione, laddove sostanzialmente tra salvare un ostaggio, disinnescare una bomba o difendere un’area specifica della mappa non vi è alcuna differenza strategica. Un elemento davvero preoccupante soprattutto in ottica competitiva e di e-sport, dato che rende estremamente piatte e identiche tra loro tutte le partite, offrendo uno spettacolo noioso e molto più simile a un deathmatch che a una vera missione ad obiettivi. Uccidere il team avversario non solo è anche estremamente più semplice, ma anche solitamente l’unica via per arrivare a completare l’obiettivo di missione. Questo a causa di un bilanciamento andato completamente a gambe all’aria e di una distruttibilità non così ampia come annunciato inizialmente. Il rammarico più grande di questo Rainbow Six Siege è proprio il downgrade brutale subito dall’annuncio a oggi e non solo dal punto di vista tecnico, che analizzeremo più avanti, ma proprio riguardo alle meccaniche di gioco, semplificate e mancanti della profondità necessaria per porre questo sparatutto un gradino sopra a tutto il resto. Scordatevi di poter abbattere qualsiasi muro o superficie, ora molte pareti saranno impossibili da rompere, così come le brecce dall’alto possibili solo in specifici punti della mappa. Il massimo che potrete ottenere sarà spaccare qualche asse e sparare dal piano superiore, davvero poca cosa rispetto alla libertà promessa in principio.

    Rainbow Six Siege è il primo titolo a nostra memoria che non permette di scegliere, prima di entrare nel matchmaking, quale modalità o mappa affrontare. La scelta degli sviluppatori Ubisoft non solo è insensata ma addirittura deleteria per l’intero progetto, quando in Terrohunt sarete costretti per forza di cose a buttarvi su una combinazione scelta dal sistema e non dal vostro team. Vi piace una mappa specifica o una missione particolare? L’unico modo che avrete per affrontarle sarà sperare nella buona sorte. Solo nel competitivo potrete creare partite custom o playlist personalizzate dove decidere cosa giocare, ovviamente senza però ottenere alcuna ricompensa né come esperienza né sotto forma di crediti.
    Non che lo sviluppo del profilo sia così importante tuttavia, dato che il matchmaking non prende in considerazione nessun parametro per comporre i team e i crediti vi daranno accesso esclusivamente a qualche ottica per le armi dei vostri specialisti (due o tre per ogni bocca da fuoco), un eventuale silenziatore, skin e poco altro.
    Arrivati al ventesimo livello avrete invece accesso alle partite classificate, con un matchmaking finalmente tarato sulle abilità reali dei giocatori, un HUD rivisto e anche meccaniche di gioco diverse, come l’assenza totale dell’auto aim e un danno aumentato per esplosivi e proiettili.
    L’unico motivo per raccogliere denaro è allora quello di sbloccare i vari soldati delle forze speciali, 20 in tutto, divisi in due categorie "assalto e difesa". Purtroppo spariscono dal competitivo i terroristi, ora rimpiazzati direttamente da altri specialisti delle forze speciali. Non è chiaro se sia una scelta di design specifica o un fattore pertinente con i recenti accadimenti, fatto sta che tutta l’atmosfera e il realismo del titolo vengono così cancellati con una veloce passata di spugna. Un colpo duro per chi ha sempre amato le ambientazioni di Tom Clancy e lo spirito della serie. Gli specialisti, inoltre, possono essere modificati in maniera davvero superficiale, cambiando qualche gadget o selezionando tra una scelta di un paio di armi da fuoco il fucile da portare in battaglia, davvero pochissima cosa se pensiamo a cosa Ghost Recon permetteva qualche anno fa.
    Tra questi soldati, presi direttamente da cinque forze speciali mondiali, troviamo Spetznaz, SAS, FBI, GIGN e GSG, che racchiudono sostanzialmente le classi con cui andrete poi a giocare, con alcune di queste indispensabili e altre che si ripetono invece molteplici volte. Ad esempio avremo più specialisti dotati di scudo anti proiettili, ma solo uno dedicato a rilevare i battiti cardiaci degli avversari. Potendone portare solo cinque in battaglia, le squadre andranno a formarsi così solo con i cinque più performanti, rivelando in realtà più piattezza di quanto immaginato inizialmente. Tachanka secondo noi, un russo enorme dotato di torretta fissa, è uno degli specialisti più forti in assoluto quando si tratta di difendere e difficilmente verrà escluso dalle partite. Un bilanciamento insomma che non ci è parso poi così finemente ricercato, sicuramente da sistemare con le patch future, magari con l’aggiunta di maggiori specialisti.

    Nonostante la delusione per le tantissime promesse non mantenute, c’è la consapevolezza di avere tra le mani un gioco che ha nelle basi una formula giusta per riuscire a divertire. La possibilità di piazzare trappole in ogni angolo delle location e gli strumenti per disinnescarle una a una rendono comunque le partite di Siege interessanti sotto questo punto di vista. Ovviamente l’altro lato della medaglia è che il multiplayer si presenta come la festa del camping estremo, con i terroristi, pardon i difensori, impegnati a trovare l’angolino più buio e nascosto dove aspettare gli assaltatori. L’impossibilità di muovere il bersaglio e le poche strade percorribili per arrivarci traducono il tutto in uno scontro di pochi minuti nel momento caldo della partita. I difensori sono altresì forzati a restare dentro le quattro mura da scelte di design discutibili, come l’impossibilità di vedere al di fuori delle finestre, a causa di un velo rosso pesantissimo, o di uscire all’esterno, pensa l’essere segnalati ed evidenziati sulla mappa di gioco.
    Il feedback delle armi e le fasi di shooting sono curate invece, mentre il rumore dei colpi poteva essere decisamente fatto meglio. Un peccato visto che l’audio, in generale, è realizzato in maniera ottimale, con una propagazione nell’ambiente realistica e di impatto. Veniamo ora al lato che più ci ha lasciato sconcertati durante la nostra prova: la componente grafica di Siege.
    Ubisoft ha fatto enormi passi indietro rispetto a quanto presentato nel 2014 e uno dei tanti problemi è da ricercarsi nell’impianto di illuminazione decisamente piatto. Le animazioni non sono assolutamente all’altezza di un tripla A, e gli ostaggi ora sono immobili e “senza anima”.
    Pregevoli solo gli effetti del fumo, elemento tuttavia che fa sentire ulteriormente la mancanza di visori di calore e notturni, dotazioni standard per le forze di irruzione che ci saremmo aspettati di vedere introdotte su ogni specialista. 

venerdì 27 novembre 2015

Assassin's Creed Syndicate


  • Piattaforme:PC

  • Genere:Action-Adventure

  • Sviluppatore:Ubisoft

  • Data uscita:23 ottobre 2015 (PS4, XONE) - 19 novembre 2015 (PC)

     

     

    Pesante… ma non troppo
    Per l’occasione abbiamo voluto testare una nuova GeForce GTX 970 di Gigabyte (una Windforce overcloccata di fabbrica), accompagnandola con 6 GB di RAM, processore Intel Core i7 970 e SSD da 512 GB. Come driver abbiamo scaricato e installato i 359.00 rilasciati da Nvidia proprio il giorno stesso dell’uscita del gioco e abbiamo testato AC Syndicate per circa 10 ore in ambiente Windows 10, trovandoci di fronte a un titolo sicuramente affamato di risorse per essere giocato a Ultra ma decisamente più equilibrato e meglio ottimizzato rispetto al suo pesantissimo predecessore. Purtroppo gli smanettoni non avranno molte opzioni tra cui scegliere a livello grafico. A parte la risoluzione e il V-Sync, dobbiamo accontentarci di sole sei impostazioni, di cui solo due specifiche (occlusione ambientale e anti-aliasing). Il resto è contenuto all’interno delle voci Grafica base, Qualità ambienti, Qualità Texture e Qualità ombre. A 1920x1200 e con queste impostazioni su Alto, i 60 fps sono stati raggiunti senza tanti problemi in quasi tutti gli scenari del gioco, a parte forse l’inizio fuori e dentro la fabbrica che ha mostrato qualche calo attorno ai 53-55 fps. Il tutto con anti-aliasing MSAA e HBAO+ come scelta di occlusione ambientale. Questo in linea di massima, visto che si possono provare anche altre combinazioni, aumentare alcuni parametri e ottenere comunque una media attorno ai 40-45 fps. 
    Se per esempio si sceglie PCSS come qualità delle ombre e l’HBAO+ Ultra come occlusione ambientale, la GTX 970 regge ancora piuttosto bene e non soffre particolarmente, anche se con le texture su Alto il consumo di VRAM è risultato quasi al limite. Se quindi avete una GPU con 3 o peggio ancora 2 GB di VRAM fate bene i vostri calcoli con le texture. Con Grafica base su Molto Alta le cose sono peggiorate ulteriormente (28-30 fps), mentre con tutte le sei impostazioni al massimo livello (compresi PCSS Ultra e TXAA) Assassins’s Creed Syndicate è risultato ingiocabile, muovendosi praticamente al rallentatore. Va comunque detto che tra la nostra impostazione iniziale e quest’ultima maxata il salto qualitativo, benché indubbio (ombre e illuminazione soprattutto), non è stato enorme come forse ci saremmo aspettati, soprattutto a livello di texture (che continuano a non convincere del tutto). L’impatto grafico generale non delude di certo, anche se come abbiamo scritto poco sopra certe prelibatezze di Unity non sono più presenti, soprattutto nel dettaglio degli ambienti interni, nei volti dei PNG e anche nei loro abiti. Mediamente le strade di Londra sono meno frequentate di quelle parigine, ma a nostro avviso questo è un bene proprio perché impatta meno sulle prestazioni e non si ha mai comunque la sensazione di aggirarsi per una città fantasma (anzi, tutt’altro). Non abbiamo inoltre notato quei glitch al limite del “mostruoso” presenti in Unity e anche lo stuttering è limitatissimo, per non dire quasi inesistente. Tutto questo con la versione patchata 1.12 rilasciata al day one e quindi non è detto che futuri aggiornamenti non possano rendere il gioco un po’ più leggero a impostazioni elevate, soprattutto se si ha in mente di giocare a risoluzioni maggiori del Full HD.       

     

giovedì 26 novembre 2015

Clandestine

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Action-Adventure

  • Sviluppatore:Logic Artists

  • Data uscita:5 novembre 2015

     

     

    Sviluppato da Logic Artists, Clandestine è un titolo che propone sostanzialmente due esperienze di gioco ben distinte: vestendo i panni di Katya, infatti, dovremo agire come spie in varie operazioni speciali, mettendo KO i nemici e muovendoci silenziosamente fino ai nostri obiettivi. La sola Katya, però, non basta, ed ecco allora entrare in scena l’hacker Martin, che dovrà guidare l’altro giocatore verso le zone strategiche, sabotare le misure di sicurezza, estrapolare chiavi d’accesso e fare in modo che tutto vada liscio. La logica di Clandestine, allora, funziona in questo modo, almeno in cooperativa: il giocatore che crea la partita veste i panni di Katya, mentre l’ospite sarà Martin.
    La prima sensazione, francamente, è che sia una gran trovata: la possibilità di affrontare il gioco insieme ad un amico, sostanzialmente giocando a fare le spie e gli agenti super segreti, di sicuro riesce a catturare l’attenzione di una larga fetta di giocatori; c’è da dire peraltro che il gioco prevede anche una modalità in singolo, in cui sostanzialmente il giocatore deve giostrare tra i due ruoli di hacker e spia; anticipando subito qualche considerazione sul gameplay, non è questa la modalità in cui Clandestine riesce a esprimersi al meglio, sebbene alle volte si potrebbe essere costretti a giocare da soli a causa della difficoltà di trovare qualche utente disponibile su internet.
    In ogni caso, su questi aspetti torneremo meglio dopo: in questa sede, invece, parliamo della storia che fa da sfondo al tutto; siamo nel 1996, e il mondo fa ancora i conti con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e con gli strascichi letali della fine della Guerra Fredda. Alcuni agenti statunitensi e russi, infatti, sono stati assassinati, e in conseguenza di ciò la CIA e l’FSB hanno deciso di creare in via del tutto eccezionale una task force congiunta. Qui entrano in scena proprio Katya e Martin, che avranno il compito di indagare sulla faccenda. Possiamo dire che la storia di Clandestine funge da collante alle varie missioni, senza regalare mai troppi sussulti: le situazioni che saremo chiamati ad affrontare nelle otto operazioni da portare a termine, in ogni caso, sono abbastanza varie, e garantiscono una certa voglia di andare avanti nella storia.
    C’è da dire, inoltre, che il gioco saprà in qualche modo adattare la narrazione alle nostre azioni, specialmente nelle fasi che si frappongono tra le varie missioni. Nel nostro quartier generale, infatti, avremo la possibilità di parlare liberamente con altri operativi, e le loro parole rifletteranno molte delle nostre decisioni prese sul campo (come il numero di nemici uccisi, o di obiettivi secondari raggiunti).

    Diciamo subito che The Clandestine è, senza particolari dubbi, uno dei titoli più originali degli ultimi tempi: la presenza di una cooperativa asimmetrica è un’idea geniale, capace di garantire alcune ore di divertimento, a patto però di soprassedere su alcune mancanze.
    Cercando di andare con ordine, vediamo di analizzare le dinamiche di gioco dei due ruoli che è possibile rivestire; nei panni dell’hacker, lo schermo di gioco verrà diviso in quattro finestre: una di queste rappresenterà una console testuale, grazie alla quale  si conosceranno gli obiettivi di gioco. In un’altra si potrà visionare la mappa di gioco, e con essa la posizione dei nemici, nonché delle telecamere, dei computer e degli allarmi. Molti di questi dispositivi possono essere in qualche modo controllati nella terza schermata, relativa proprio alla rete informatica dell’ambiente che si sta analizzando: sarà in questa particolare finestra, difatti, che l’hacker passerà gran parte del tempo. In questo ambito, il tutto si svolge come una specie di minigioco, in cui è possibile spostarsi attraverso un reticolo, i cui nodi rappresentano determinati terminali ed apparecchiature da hackerare. L’ostacolo da affrontare sarà tutto sommato uno solo, ovvero l’attività dell’amministratore di sistema che ci darà la caccia attraverso il reticolo; un po’ come in Pac Man, allora, dovremo sfuggirgli sfruttando il reticolo descritto poc’anzi. La quarta e ultima finestra, infine, ci mostrerà il mondo di gioco attraverso la telecamera personale di Katya, oppure tramite la visione delle varie telecamere degli ambienti, che quindi potranno essere sviate dalle loro routine, di modo da far passare la nostra collega spia inosservata.
    Qualche problematica è stata riscontrata, però, vestendo proprio i panni di Katya: impersonando la spia dai capelli rossi e dalle cuffie spiritose, infatti, i giocatori potrebbero incorrere in intoppi non proprio simpatici. Prima di tutto, la nostra si è spesso dimostrata goffa in alcuni movimenti, e incapace di intraprendere alcune azioni vitali in un titolo dalle evidenti dinamiche stealth; a questo proposito, ad esempio, non è possibile spostare i cadaveri lasciati sul nostro cammino, di modo da sviare l’attenzione (in realtà, l’hacker potrà fare scomparire magicamente un numero limitato di corpi). Nel momento in cui la nostra dovrà impugnare un’arma, poi, la situazione sarà ancora peggiore, ma questo non deve trarre in inganno. Il gameplay di Clandestine, infatti, prevede che lo scontro a fuoco sia veramente l’ultima soluzione operabile, considerato che Katya sarà sempre a corto di proiettili, e che per i nostri nemici ci metteranno veramente poco a farci fare una brutta fine nel momento in cui ci scopriranno.
    Non c’è dubbio che, insieme a un amico, e soprattutto con una qualche chat vocale esterna (il titolo, infatti, contempla solo una corrispondenza testuale), l’esperienza di Clandestine sia più che buona, e in alcuni momenti esaltante; in questo senso, l’intelligenza artificiale non brilla per acutezza e intelligenza, ma offre una sfida discreta, più che altro perché sarà sempre in larga superiorità numerica, e si muoverà spesso su binari non prevedibili. L'elemento più importante, per venirne a capo, è il coordinamento: il giocatore che impersona Katya, infatti, non potrà contare sulla mappa di gioco, e sarà compito dell’hacker dirgli dove andare, cosa fare, e soprattutto segnalare la posizione di nemici e telecamere.
    La condizione necessaria per godere appieno dell’esperienza di Clandestine è, come detto, la presenza di un amico con cui giocare. Sperare di trovare un altro giocatore con cui giocare online, al momento, è impresa assai ardua, e come ribadito in precedenza il titolo perde molto del suo valore se giocato in singolo. Tutto ciò è un peccato perché, d’altra parte, il gioco presenta un livello di difficoltà piacevole, mitigato peraltro da un ottimo sistema di salvataggio a checkpoint, che in sostanza registrerà ogni nostro cambiamento di location.Il piacere che si ricava dal gioco in compagnia, peraltro, fa anche passare in secondo piano le magagne di un comparto tecnico altalenante: già spulciando le immagini del gioco, difatti, è possibile comprendere come la grafica non rappresenti proprio il punto forte di Clandestine; considerato il carattere indipendente della produzione, in realtà, si può anche sorvolare sulla poca definizione delle texture, o sul basso conteggio poligonale.  Non possiamo tacere, però, di alcune mancanze sul lato squisitamente tecnico: durante le nostre prove, ad esempio, non siamo stati in grado di creare una partita co-op senza prima disabilitare il firewall: a quanto è stato possibile comprendere, fortunatamente, non si tratta di un difetto particolarmente diffuso tra gli altri giocatori.
    Per ultimo, accenniamo al comparto audio: Clandestine è, almeno nelle fasi tra una missione e l’altra, un titolo discretamente verboso, con lunghi dialoghi tra i personaggi. In questo senso, il doppiaggio in inglese si è dimostrato non così ispirato, ma tutto sommato sufficiente.

mercoledì 25 novembre 2015

Fallout 4

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Gioco di ruolo

  • Sviluppatore:Bethesda Softworks

  • Data uscita:10 novembre 2015

     

     

    Fallout è qualcosa di straordinario. Non parliamo soltanto della sua ambientazione, in grado di mostrarci un possibile futuro in cui l’atomo ha soppiantato qualunque altra fonte energetica, ma soprattutto della sua capacità di creare delle fortissime dicotomie. I Vault, le casseforti sotterranee in cui una parte dell’umanità è stata rinchiusa durante la grande guerra nucleare, proteggono ma intrappolano l’uomo da un mondo esterno in cui la libertà sembra sconfinare nell’anarchia, in cui chi cerca di fare ordine viene visto con sospetto. Una terra in cui i rimasugli del mondo hanno subito delle mutazioni irreversibili che hanno tolto l’umanità anche da chi non si è trasformato in un mostro radioattivo.
    Il mondo è a pezzi, e noi camminiamo sui suoi cocci.
    Così, dopo una lunga attesa, eccoci di fronte al quarto capitolo di questa saga. Un titolo per cui i giocatori sono rimasti col fiato sospeso per mesi, nella speranza che si rivelasse all’altezza delle proprie aspettative. Ve lo diciamo subito: Fallout 4 è esattamente il gioco che ci aspettavamo, nel bene e nel male.
    Iniziamo dalla storia. Come avvenuto in Fallout 3, anche in questo capitolo si narrano le vicende di un uomo fuggito da un Vault. I perversi esperimenti della Vault-Tec vengono chiariti nei primi minuti del gioco, dopo l’antefatto che porterà il giocatore a rivivere alcune fasi prebelliche per poi ritrovarsi a duecento anni di distanza dalla guerra atomica che ha devastato il mondo. Sanctuary Hills, la città in cui abbiamo messo su famiglia, è ridotta a un cumulo di macerie e la gente che amiamo è scomparsa.
    Proprio da qui - dalla ricerca dei pezzi del nostro passato - comincia l’avventura del sopravvissuto solitario di Fallout 4. Una storia che ci porterà ad avere a che fare con le macerie del Commonwealth, l’odierno Massachusetts, oramai abitato da predoni, reietti, animali feroci, supermutanti e ghoul, ma anche da persone che cercano di sopravvivere e creature artificiali il cui ruolo, per la prima volta nella serie, sarà di importanza fondamentale.
    Ci fermiamo qui: non è nostra intenzione rivelarvi che cosa avviene nel corso di questa vicenda, ma vi possiamo dire che la storia principale vi terrà impegnati per una ventina di ore molto intense, in cui i colpi di scena si susseguono e nella quale sarete chiamati a compiere delle scelte radicali. A tre quarti della storia principale, infatti, il giocatore si trova di fronte ad un dilemma che lo porterà a cambiare per sempre il destino del Commonwealth e, ovviamente, a modificare in maniera importante le ultime missioni del gioco. La presenza di tre diverse fazioni incompatibili fra loro, più una quarta “super partes”, arricchisce il sostrato narrativo di Fallout 4 quanto basta da mettere il giocatore di fronte a delle scelte importanti, impedendogli di trovare una soluzione che metta d’accordo tutti. Sarete chiamati a fare dei sacrifici, sarete costretti a rinunciare ad amicizie, rapporti professionali e a scegliere tra la ragione e il sentimento.
    Anche se la sceneggiatura vacilla in alcuni punti e almeno un colpo di scena è risultato essere scontato, Fallout 4 riesce a fare riflettere il giocatore e a farlo interrogare più volte sulle scelte intraprese. Da questo punto di vista, dunque, il lavoro è perfettamente riuscito: Fallout 4 è un gioco di ruolo che ci mette di fronte a dei bivi e ci mostra in maniera concreta il risultato delle nostre azioni.
    Al di fuori della campagna principale - come sempre avviene nei giochi Bethesda - vi è una pletora di sottotrame, missioni secondarie e miniquest che contribuiscono a prolungare le ore di gioco oltre le due cifre e che, in numerosi casi, si rivelano straordinariamente profonde o molto originali. Alcune missioni secondarie vengono assegnate dai personaggi incontrati lungo il nostro cammino, mentre altre si ritrovano in maniera fortuita, intercettando una stazione radio o, più semplicemente, visitando un luogo spinti dalla curiosità. Grazie alla mitologia ben radicata di Fallout e a questa sua struttura, il giocatore è naturalmente spinto a visitare ogni luogo del Commonwealth, scoprendo spesso piccole storie, spaccati di vita prebellica, comunità che cercano di sopravvivere tra speranza e disperazione, o luoghi estremamente inquietanti o pieni di segreti. Già nelle prime dieci ore di gioco si viene letteralmente sopraffatti dalla quantità di cose da fare e, anche dopo avere concluso la campagna principale, vi ritroverete con in mano un mondo esplorato solo in piccola parte. Non ci troviamo di fronte a una mappa di gioco straordinariamente vasta, ma incredibilmente densa di luoghi visitabili: dimenticatevi il deserto di New Vegas e la Wasteland di Fallout 3: Boston ha centinaia di punti di interesse.
    Per ovvie ragioni non ci è stato possibile completare il gioco al 100%, ma crediamo che le 400 ore di gameplay paventate dal lead designer di Fallout 4 siano una stima verosimile e che l’assenza di un level cap si sposi bene con la gigantesca quantità di perk da sbloccare e potenziare. Questo gioco, in altre parole, è immenso.
    Una delle grandi novità di Fallout 4 è data dalla possibilità di rendere il Commonwealth casa propria. Non parliamo delle consuete meccaniche di housing, già presenti nei due precedenti capitoli, ma di una meccanica che stravolge il concept consentendoci di costruire interi villaggi, di popolarli con alleati e di difenderli dai nemici. In alcuni luoghi designati, infatti, è possibile creare un avamposto e modificarlo attraverso la costruzione di edifici, sia prefabbricati che costruiti da zero dal giocatore. Vi è poi la possibilità di costruire negozi, strutture di difesa, generatori elettrici, fattorie e purificatori d’acqua. La rinascita della civiltà post-atomica passa anche dalle vostre mani.
    La costruzione dei villaggi va di pari passo con le varie meccaniche di crafting presenti nel gioco, che danno finalmente un senso alle cianfrusaglie recuperate durante le nostre esplorazioni. Ogni oggetto ritrovato, infatti, può essere riciclato per ottenere dei materiali, da impiegare sia nella costruzione dei villaggi che nella creazione e modifica di armi e armature, oltre che di cibarie, cure, droghe ed esplosivi.
    Questa componente del gioco non può essere ignorata dal giocatore, in quanto in almeno un’occasione ci si trova costretti a farne uso per proseguire nell’avventura. Un aspetto, questo, che metterà a dura prova gli speed runners e che, al contempo, potrebbe frustrare chi si vedrà costretto a tornare sui propri passi per recuperare dei materiali mancanti al fine di concludere l’avventura nel minor tempo possibile. Ma poco importa: il crafting in Fallout 4 è risultato molto più divertente del previsto, e abbiamo trascorso diverse ore ad abbellire i nostri villaggi e a costruire strutture per i nostri abitanti. Anche se, al momento, vi è solo una manciata di asset da cui attingere per costruire le nostre città, crediamo che le mod - questa volta supportate anche su console - sapranno presto trasformare in maniera molto importante anche questo aspetto del gioco.
    Per quanto concerne lo shooting, Fallout 4 non si distanzia in maniera radicale dai precedenti capitoli della saga. Ritroviamo il sistema SPAV, questa volta reso un po’ più dinamico dalla presenza di un bullet time. In altre parole, una volta attivato lo SPAV i nostri nemici continuano a muoversi, lasciandoci meno tempo per pensare ma, al contempo, consentendoci di trovare il momento opportuno per premere il grilletto. Le percentuali di riuscita del colpo, infatti, variano con la posizione dell’avversario sul campo di battaglia, e il bullet time non fa altro che invogliarci ad attendere o a sbrigarci per ottenere il massimo danno possibile.
    Il danno critico, questa volta, non viene determinato in maniera casuale ma da una barra che si riempie ad ogni colpo inferto con lo SPAV. Quanto la barra è carica, il giocatore può attivare il danno critico con il 100% di possibilità di riuscita: alcuni perk e il parametro di fortuna, dunque, modificano solo la velocità con cui si ricarica la barra del critico e l’eventuale danno inferto, ma non influiscono sulla riuscita dello stesso. Il colpo critico diventa pertanto un’ulteriore risorsa nelle mani del giocatore, da utilizzare al momento opportuno di fronte ad un nemico particolarmente ostico.
    Lo shooting al di fuori del sistema SPAV funziona in maniera analoga a Fallout 3 e Fallout: New Vegas, ma le nostre armi sono profondamente diverse a seconda delle modifiche installate. Poiché ogni singola arma può essere smontata e ricostruita attraverso il sistema di crafting, è possibile trasformare una banale pistola calibro 10 in un’arma lunga silenziata, o in una bocca da fuoco dotata di mirino telescopico per colpire dalle lunghe distanze. Per la stragrande maggioranza delle armi da fuoco vi sono centinaia di combinazioni possibili, ed è pressoché impossibile avere due armi analoghe nel proprio arsenale. Il giocatore può persino dare un nome alle proprie creazioni, creandosi da sé i propri oggetti unici.
    Lo stesso discorso si applica alle armature, che possono essere modificate in ogni parametro per risultate più resistenti, in grado di assorbire un particolare tipo di danno o, più semplicemente, più leggere o capaci di dare un bonus al peso trasportato.
    Una tale varietà, però, ha avuto come diretta conseguenza un vertiginoso calo nella tipologia di armi e armature disponibili. Nel gioco troverete pochi modelli base e migliaia di variazioni, con il risultato di rendere molto meno interessante la ricerca degli oggetti sui cadaveri. In parziale soccorso di ciò, vi è l’introduzione dei nemici leggendari, versioni più coriacee degli avversari e capaci di mutare durante il combattimento, che offrono sempre un drop di tipo speciale. Anche le armi e le armature leggendarie ottenute da questi particolari nemici si fondano sulle versioni base, ma offrono dei bonus molto difficili da ottenere attraverso il crafting e, se non bastasse, possono comunque essere modificate attraverso un banco di lavoro. Così, nel giro di qualche ora, vi ritroverete in mano alcuni gingilli davvero potenti, ma per la maggior parte dell’avventura continuerete ad utilizzare parte dell’equipaggiamento ottenuto all’inizio del gioco, opportunamente modificato. Forse vi sorprenderà, ma abbiamo finito la campagna principale senza mai toglierci la tuta del Vault 111, raccolta all’inizio dell’avventura e cui abbiamo applicato qualche piccola ma significativa modifica nel corso dei nostri viaggi.
    Dobbiamo inoltre segnalare la sparizione dei danni all’equipaggiamento. Avete capito bene: le nostre bocche da fuoco e le armature non si logorano, e il giocatore non ha mai a che fare con strumenti inefficienti. Anche in questo caso, dunque, emerge con forza il relativo disinteresse da parte del giocatore nel drop degli avversari, un tempo necessario per raccogliere materiali utili a rattoppare le proprie armature e aggiustare le proprie armi. Se amavate questo aspetto e non siete inclini al crafting, Fallout 4 vi lascerà un pizzico di amaro in bocca.
    Vi è poi da aprire una piccola ma importante parentesi sulla presenza dell’armatura atomica: quella che era una sorta di arma suprema in Fallout 3, in Fallout 4 viene resa disponibile sin da subito. Anch’essa, inutile dirlo, può essere modificata (e riparata) attraverso il sistema di crafting, ma il suo uso è limitato dal consumo di un raro combustibile, un nucleo radioattivo recuperabile solo in alcuni luoghi della mappa e droppato da alcuni nemici particolarmente coriacei. In breve: non è possibile indossare l’armatura atomica tutto il tempo, ma in alcune fasi di gioco siamo quasi costretti a farne uso per poter sopravvivere. Le radiazioni in Fallout 4, infatti, hanno conseguenze più evidenti e sono estremamente più comuni che in Fallout 3 e New Vegas, e l’armatura atomica si rivela essere uno strumento indispensabile in alcuni luoghi della mappa. Vi basti pensare che anche un semplice ghoul può avvelenarvi con le radiazioni, e non siamo sorpresi di avere utilizzato nelle prime tre ore di gioco la stessa quantità di Rad-Away utilizzata nell’intera campagna di Fallout 3.
    I compagni di viaggio, da sempre presenti in questa saga, tornano in Fallout 4. A partire da Dogmeat, il nostro peloso amico capace di fiutare nemici e segreti, la nostra rete di conoscenze ci porterà presto ad avere a disposizione vari alleati. Ognuno di essi ha una personalità unica e caratteristiche molto diverse, e le nostre azioni contribuiscono a plasmare il tipo di legame tra il nostro alter-ego e chi lo accompagna.
    I companion, inoltre, danno accesso ad opzioni di dialogo uniche e intervengono durante le nostre discussioni in alcune missioni, rendendo l’esperienza di gioco molto diversa a seconda dell’accompagnatore scelto. Se a questo aggiungiamo la presenza di quest uniche attivate in determinate condizioni dai nostri alleati e, in alcuni casi, davvero lunghe e intriganti, vi è più di una ragione per non muoversi da soli nel Commonwealth.
    Anche se alcuni compagni si incontrano nel corso della campagna principale, alcuni di essi si ritrovano in maniera quasi casuale, o durante una quest secondaria. Nel gioco ce ne sono ben quattordici, e nella nostra avventura ne abbiamo scoperti appena sette: un altro indizio della vastità di questo gioco.
    Spostandoci sul lato tecnico di Fallout 4, ci siamo dovuti inevitabilmente scontrare con uno dei marchi di fabbrica di Bethesda Softworks: i bug. Parliamoci chiaro: un gioco con struttura open world di questa portata e privo di problemi tecnici è assolutamente inverosimile, per quanto auspicabile, e Fallout 4 non fa eccezione. Il Creation Engine, già utilizzato per The Elder Scrolls V: Skyrim, presenta tutti i suoi limiti con compenetrazioni poligonali, ridicoli ragdoll dei nemici, spawn degli alleati negli ascensori, animazioni poco realistiche e altri problemi minori legati all’ubicazione di alcuni waypoint (un aspetto, questo, reso meno grave dalla presenza di un perk che ci consente di individuare la strada attraverso un sentiero luminoso visibile dallo SPAV).
    Al contempo, abbiamo notato una rifinitura maggiore nelle quest e una presenza di game breaking bug davvero rarefatta. Nella fase di recensione ci siamo visti costretti a ricaricare la partita una sola volta in seguito ad un problema con un waypoint inaccessibile, e non ci è mai capitato di morire o fallire una missione a causa di un problema tecnico.
    I limiti del Creation Engine, semmai, si notano nell’impatto grafico del gioco: su console abbiamo il popup di elementi in lontananza, alcune texture in bassissima risoluzione e modelli certo non particolarmente dettagliati, che si sommano agli evidenti problemi di frame rate della versione Xbox One.
    Insomma: Bethesda con Fallout 4 ha deciso di investire maggiormente sui contenuti scegliendo di mantenere (e rifinire) il proprio Creation Engine. Il risultato è un’esperienza incapace di farci girare la testa da un punto di vista grafico e con alcuni problemi tecnici, sebbene infinitamente meno gravi di quanto visto nei precedenti Fallout e persino in Skyrim. 
    Questo aspetto, probabilmente, farà discutere a lungo i giocatori; noi crediamo che di fronte a una tale vastità e varietà dei contenuti, l’aspetto grafico passi in secondo piano nel giudizio finale. 
    La varietà negli ambienti, l’enorme quantità di ore di gioco, l’atmosfera unica, la presenza di decine e decine di ore di dialoghi interamente doppiati (bene) in italiano - per la prima volta anche con la voce del nostro alter ego - sono elementi sufficienti per farci dimenticare che, a conti fatti, Fallout 4 da un punto di vista strettamente grafico non è poi così al passo coi tempi. 
    Se a questo aggiungiamo la stratosferica colonna sonora composta da brani originali e da una varietà di celebri pezzi della musica americana degli anni quaranta e cinquanta - in alcuni casi riciclati da Fallout 3 - ci vuole poco per andare in brodo di giuggiole quando iniziate a muovere i primi passi nella zona contaminata.

sabato 21 novembre 2015

Hard West

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Strategico

     

     

    Il rilancio in grande stile di un brand storico come Xcom, avvenuto un paio di anni fa, ha dimostrato come, tra sparatutto in prima persona troppo simili gli uni agli altri e MOBA assortiti, ci sia ancora spazio, nel mercato odierno, per titoli basati sul ragionamento, sulla tattica, sul padroneggiare un sistema di combattimento a turni nella sua interezza, allenando molto di più la materia grigia che non le dita.
    Hard West trasporta l'amore per queste dinamiche di gioco in uno scenario abbastanza originale per il genere, vi associa una narrativa a tratti sorprendente ed un prezzo di lancio d'occasione e, così armato, prova a portare nel lato oscuro di un West mai più selvaggio di così.
    Signori, in carrozza, prego.
    Sebbene gestita attraverso una grande maggioranza di linee di testo intervallate da sporadiche incursioni di una voce narrante, la stessa che introduce il giocatore durante il filmato iniziale, la narrativa di Hard West è la prima cosa che colpisce, e lo fa in pieno volto, proprio come uno dei tanti pugni che volavano nei saloon dell'epoca.
    La frontiera disegnata e raccontata dai ragazzi di CreativeForge Games è la più dura, spietata e senza speranza tra quelle che l'industria culturale ci ha propinato negli anni, assai più delle epopee di Sergio leone, e, per rimanere in ambito videoludico, di quella, indimenticabile, di Red Dead Redemption.
    Pur senza i mezzi narrativi e il budget delle succitate produzioni, gli sceneggiatori riescono a mostrarci la povertà, la difficoltà di ogni singola scelta, la grettezza degli abitanti del west, e ci costruiscono attorno vicende che alternano la brutalità quotidiana al soprannaturale, con il diavolo che, come da tradizione, sguazza nei contesti sociali più malfamati, dove ci si ammazza per un tozzo di pane raffermo.
    Il primo degli scenari proposti, che per molti versi rappresenta il più duro da digerire perché si giova del fattore sorpresa, ci vede nei panni di Warren, figlio di genitori che hanno tentato la fortuna sulla via dell'Oregon Trail, trovando invece solo morte e disperazione: dei banditi, infatti, rapiscono ed uccidono la madre di Warren, nonostante i vani sforzi del padre (senza nome, è solo un padre), lasciandolo solo a crescere il nostro protagonista.
    Venuto su con le mani indurite dal lavoro, costretto a barcamenarsi tra la fame e la necessità di portare avanti il ranch di famiglia, il nostro si troverà presto invischiato in una situazione assai poco invidiabile, in seguito all'accordo che il padre, disperato, ha stretto con uno sconosciuto ben vestito, dalla lingua sciolta e i modi affettati.
    All'equazione si aggiungerà presto Florence, dolce figlia di un contadino vicino di casa di Warren, di cui quest'ultimo si innamorerà perdutamente: ma l'amore, come ogni altra emozione, ha un prezzo assai salato in Hard West.
    La storia dei giochi di ruolo per PC insegna che coloro che giocano con questa piattaforma sono più propensi a leggere muri di testo rispetto ai colleghi console, e il consiglio, in questo caso, è di non perdersi alcuna descrizione, cercando di immedesimarsi il più possibile negli sfortunati protagonisti, così da comprendere come, indipendentemente dalle scelte fatte, in questo west si perde comunque.
    Se, tra il cappello introduttivo e il titolo di questo paragrafo ho citato già due volte Xcom, non è certo un caso: anche gli sviluppatori non hanno mai fatto mistero di essere stati ispirati dalla storica saga a base di alieni e strategia, e il gameplay di Hard West riflette l'ammirazione per il lavoro dei colleghi di Firaxis.
    Le oltre quaranta missioni principali di Hard West, infatti, si giocano su una griglia di movimento ben definita, in cui muovere il nostro party, perlopiù composto da soli tre elementi, alternando i propri turni con quelli degli avversari, in maniera tanto classica quanto riuscita: chi ha giocato non solo uno degli Xcom (in particolare il recente rebooth della saga) ma qualsiasi titolo di strategia a turni uscito negli ultimi dieci anni saprà esattamente cosa aspettarsi, con il vantaggio che, già dopo dieci minuti di gioco, ci si sente a casa.
    Padroneggiare completamente le meccaniche di gioco, però, è un altro paio di maniche: il livello di difficoltà medio lascia poco spazio all'improvvisazione e alla dabbenaggine, e punisce con il game over tutti coloro che affronteranno gli scontri senza avere un piano ben preciso in mente.
    Cardine del gameplay è la fortuna, non a caso l'unico indicatore a parte quello della salute dei nostri personaggi: questa decresce ogni volta che un proiettile nemico manca uno dei nostri combattenti e, nel contempo, funge da barra del “mana”, visto che le abilità speciali hanno tutte un costo in fortuna.
    Allo stesso modo, venire colpiti rimpingua la barra della fortuna, come anche molti oggetti consumabili, ma, una volta svuotata, essa non si ricaricherà automaticamente se terremo il nostro eroe lontano dai proiettili: questa semplice meccanica di rischio e ricompensa rende ogni scontro una sfida alla sorte prima ancora che ai nemici, costringendo il giocatore a scoprirsi e controbilanciando così la condotta difensiva che la scarsità di risorse suggerirebbe di adottare.
    Dal menu delle opzioni, poi, è possibile selezionare un'altra feature molto interessante, che rende il titolo ancora più stimolante in termini di sfida: scegliendo di mantenere le ferite debilitanti, porteremo in battaglia personaggi gravemente danneggiati (una ferita alla mano riduce sensibilmente la probabilità di colpire, una alla gamba la nostra mobilità) ma, passato un dato lasso di tempo, queste ferite renderanno il personaggio più forte, donandogli bonus permanenti di varia natura. Della serie “quello che non ti uccide, ti fortifica”.
    Ad una gamma di armi che rispecchia, senza grandi sorprese, l'equipaggiamento dell'epoca, tra fucili a canne mozze, rivoltelle a sei colpi e carabine improvvisate, si affianca un sistema di apprendimento delle skill singolare quanto la suddetta meccanica della fortuna: ogni personaggio ha degli slot che possono essere riempiti da carte da gioco, ognuna delle quali porta in dote abilità uniche (dalla difesa aumentata ad una maggiore capacità di movimento, per fare due esempi), e, componendo tris, poker, scale e ogni altro tipo di combinazione possibile, i bonus vengono raddoppiati o se ne aggiungono di ulteriori.
    Accanto ad una serie di meccaniche riuscite e ben implementate, ci sono, purtroppo, anche un buon numero di ingenuità: manca totalmente la possibilità di mettersi in guardia (l'overwatch sdoganato da Xcom), la cui assenza assottiglia le possibilità tattiche in determinati scenari, molte missioni sono insta-fail, perché la morte di un personaggio considerato principale porta immediatamente a dover ricaricare l'ultimo salvataggio e, tra una battaglia e l'altra, le possibilità sono assai limitate, complice anche la ridotta dimensione delle mappe.
    La base, comunque, considerando le dimensioni del team di sviluppo, il budget a disposizione e i soli venti euro richiesti per il download da Steam (al momento di redigere questo pezzo c'è un venti per cento di sconto, che porta il prezzo a meno di sedici euro) è più che buona, e la speranza è di vedere, in futuro, un sequel che ampli ed affini quanto di buono c'è in Hard West.

    Tra gli aspetti migliorabili cui si faceva riferimento poc'anzi, nonostante sia secondario rispetto al gameplay, c'è sicuramente quello tecnico, graziato da un'ottima art design generale ma povero a livello poligonale e di animazioni.
    Da un titolo indipendente, proposto a questo prezzo, non era lecito aspettarsi troppo di più, anche in considerazione del fatto che il genere di appartenenza non è esattamente quello scelto per i benchmark alle fiere, ma la recente Director's Cut di Wasteland 2 e la trilogia di Shadowrun hanno dimostrato che è possibile fare di meglio, anche senza strafare.
    La longevità media è compresa tra le venti e le venticinque ore, con otto scenari diversi a disposizione e qualche missione secondaria ottenibile esplorando a fondo le mappe di gioco tra un combattimento e l'altro. 

martedì 17 novembre 2015

Star Wars Battlefront

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Sparatutto

  • Sviluppatore:DICE

  • Data uscita:19 novembre 2015

     

     

    Star Wars è una delle saghe più famose al mondo, un brand per il quale gli appassionati farebbero davvero follie. Con l’imminente arrivo nelle sale del nuovo film, l’entusiasmo di tutti è riesploso come un vulcano e non è certo sorprendente vedere prodotti legati alla pellicola affollare gli scaffali dei negozi, pronti a cavalcare l’onda del suo assicurato successo. Il nostro media preferito non poteva ovviamente esimersi, e dapprima Disney e poi Electronic Arts hanno riportato le guerre stellari sulle piattaforme da gioco, favorendo l’ambientazione della trilogia originale piuttosto che quella vista nei prequel diretti da Lucas (merito soprattutto del ritorno di Harrison Ford e di Carrie Fisher nell’imminente settimo episodio).
    L’importanza di questa operazione la si può leggere su più livelli, ma vi basti pensare che persino Battlefield è stato messo in pausa per un anno per lasciare campo libero a Battlefront, situazione inimmaginabile in qualsiasi altra circostanza.
    Alle redini del progetto, ovviamente, ancora DICE che non si è certo tirata indietro negli ultimi mesi quando si è trattato si mostrare lo stato di sviluppo del gioco, favorendo la crescita di un hype davvero esagerato. Oggi siamo finalmente arrivati al tanto atteso verdetto definitivo, un verdetto che va a chiarire tutti i dubbi sul titolo, ora che ogni suo piccolo segreto è stato sviscerato durante una lunghissima maratona di gioco. Rinfoderate le vostre spade laser e fate partire il proiettore olografico, sarà una lunga camminata tra le stelle.

    Lavorare su una storia importante come quella di Star Wars non è sicuramente facile. Ogni più insignificante particolare viene supervisionato e anche il minimo dettaglio discusso ai piani alti dai responsabili di produzione. Visti anche i precedenti narrativi di DICE, non esattamente al top come livello, la soluzione più ovvia è stata quella di dimenticarsi del tutto di una qualsivoglia campagna o modalità storia, scrollandosi di dosso un problema che sarebbe potuto tornare indietro come un boomerang. Un vero peccato secondo noi perché, nel complesso, è proprio questo il pezzo di puzzle mancante più grosso nell’intero pacchetto. Per rimpolpare l’offerta ludica, non propriamente ricca e sicuramente inferiore a quella proposta dagli altri shooter “concorrenti”, DICE ha allora virato verso tutta una serie di modalità di gioco competitive e cooperative da poter sfruttare con i bot o da condividere con un amico, sia in locale attraverso Split Screen, rinunciando però ai granitici 60 frame al secondo, sia tramite semplice cooperativa online.
    Sostanzialmente ognuno dei quattro pianeti ricreati in Battlefront ha una mappa dedicata in ciascuna delle quattro modalità presenti, portando il conteggio a sedici missioni totali.
    Si parte dalle classiche schermaglie di addestramento, grazie alle quali prendere manualità con i controlli dei vari veicoli e affinare l’empatia con il gunplay, fino ad arrivare alla ormai straconosciuta modalità survival, in cui resistere per quindici turni a ondate continue di sodati e mezzi nemici.
    Tre i livelli di difficoltà previsti, con l’ultimo in grado di mettere a dura prova le vostre abilità e pensato per richiedere, oltre a un’eccelsa mira e una buona strategia, anche un compagno con cui organizzarsi al meglio, dato che i blaster guidati dalle sapienti mani dell’IA saranno davvero letali. Il tutto non si discosta tuttavia da ciò a cui altri giochi ci hanno già abituato, rendendo i contenuti poco più che un contentino, un semplice svago per dare al giocatore qualcosa di diverso da fare dalle massicce battaglie online. L’unico stimolo a continuare a giocare viene dato da una serie di stelline da raccogliere su ogni mappa, che andranno a sbloccare poi personaggi in un diorama dedicato, un altro elemento di semplice contorno e piuttosto “dimenticabile”.
    A chiudere il cerchio delle modalità singleplayer ci pensano le Battaglie, che attraverso una meccanica molto simile a quella del Kill Confirmed vista in Call of Duty faranno scontrare la fazione dei Ribelli contro gli imperiali, con tanto di Eroi. Ad aggiungersi ai due giocatori ci penserà come sempre l’IA, che svolge il ruolo del leone questa volta, con un comportamento strategico eccellente ed armamenti di pericolosità crescente con l’avanzare dei match, per partite sempre molto combattute anche in singleplayer.

    Non è particolarmente difficile parlare del gunplay di Battlefront. Il target di riferimento di DICE per quest’anno non è infatti quello degli accaniti sostenitori di Battlefield (con cui questo gioco ha davvero poco da spartire), né tantomeno quello degli appassionati di sparatutto, quanto piuttosto una massa enorme di giocatori che hanno solo il desiderio di andare a combattere come imperiali e ribelli nella speranza di rivivere le stesse situazioni viste nei film. Dimenticatevi quindi particolarità balistiche o scontri eccessivamente ostici, in Battlefront tutto il superfluo è stato cancellato con un veloce colpo di spugna, lasciando allo scoperto un’ossatura basilare ma funzionale e, soprattutto, adatta allo scopo. Le sole 11 armi presenti, tra cui blaster pesanti, pistole e fucili da cecchino di vario tipo, non sono bilanciate e un paio di queste battono tutte le altre in ogni statistica, risultando estremamente più efficaci. Non esiste nemmeno alcuna necessità di accumulare uccisioni in serie per attivare potenziamenti sul campo di battaglia, né tantomeno di tenere le granate solo per gli estremi momenti di necessità, considerando che tutto è legato a semplici cooldown. Il gioco nella sua semplicità diventa una festa di esplosioni, laser che si incrociano e soldati che volano gambe all’aria ad ogni istante, un agglomerato di situazioni perfetto per far divertire chiunque. Persino la scelta di far apparire i token per mezzi e armi speciali nel bel mezzo delle mappe è una decisione che ricalca questa specifica direzione e che può essere riassunta semplicemente dal desiderio di far sentire forte ogni singolo giocatore in partita, anche fosse solo per una kill. Allo stesso modo tutti possono ottenere i token per impersonare gli eroi, sei in tutto al momento, e anche qui si vedono sbilanciamenti chiaramente dovuti alla volontà di replicare le abilità viste nei film più che di elevare l’esperienza stessa del gioco.
    L’impatto iniziale può lasciare davvero spiazzati, ma anche chi desidera qualcosa di più può trovare pane per i suoi denti, con una gestione delle classi piuttosto diversa dal solito. DICE ha infatti eliminato le canoniche build di abilità predefinite, per dare una scelta più ampia attraverso un sistema di carte e power up che possono essere miscelati in massima libertà. Mano a mano che salirete di livello sbloccherete armi e potenziamenti sempre più poderosi, così come tratti speciali che vi forniscono bonus in base alla quantità di uccisioni consecutive in battaglia. Scegliete la carta del bounty hunter ad esempio, e più diverrete letali più i nemici avranno possibilità di lasciar cadere token per armi e torrette, oppure optate per tratti che favoriscono la rigenerazione salute o la resistenza agli esplosivi, con la possibilità di cambiare setup solo tra una partita e l’altra ma anche di selezionarne uno qualsiasi degli amici con cui state giocando online.

    Il cuore del gioco risiede nell’online con le sue nove modalità, un numero non eccessivamente elevato ma neanche poi così povero, dato che queste risultano comunque solide e ben fatte. DICE, con la maggior parte di esse, ha voluto andare sul sicuro senza strafare, e ha inserito rivisitazioni di capture the flag, control point e persino dl Rush, con At-At, purtroppo non controllabili direttamente, e At-St al posto di carri armati e blindati. Compaiono poi anche i deathmatch a squadre, ovviamente senza alcuna variazione, e la notevole Fighter Squadron dove salire a bordo degli Ala X, Ala A, Tie Fighter e Interceptor, e combattersi nei cieli dei quattro pianeti presenti. Le diverse modalità di gioco portano in grembo tredici mappe multi giocatore, anche se in questo conteggio vengono considerate porzioni ristrette delle mappe della modalità Walker Assault, ritagliate e inserite per un numero ridotto di partecipanti. Da otto a quaranta giocatori possono così prendere parte al multi giocatore, tentando di guadagnare esperienza e crediti per salire di livello e raggiungere il cap, fissato al cinquantesimo livello. C’è abbastanza varietà da divertire a lungo ma, come dicevamo inizialmente, i giocatori resteranno incollati sui server proprio perché le atmosfere sono ricreate in maniera deliziosa e la giocabilità alla portata di tutti.
    Ciliegina sulla torta arriva dalle battaglie tra eroi, dove tutti a turno impersoneranno Darth Vader, Palpatine, e Boba Fett contro Han Solo, Leia e Luke Skywalker in battaglie all’ultimo colpo di spada laser.
    Se l’atmosfera è ricreata così bene, il merito va ovviamente al comparto tecnico che è, senza mezzi termini uno dei migliori tra gli fps di quest’anno. Ad eccezione della distruttibilità quasi assente, è praticamente impossibile muovere una critica a quanto messo in campo dal frostbite. Dagli scontri tra le nuvole alle tempeste di sabbia che si alzano su Tatooine e Sullust fino alle foglie e gli alberi di Endor, tutto è curato nel dettaglio, e con questa qualità rimpiangiamo ancor più la mancanza di una modalità singleplayer solida.
    Superlativo anche il sonoro con campionamenti presi direttamente dalle pellicole e una colonna sonora classica da pelle d’oca per gli amanti di Star Wars. non mancano infine le personalizzazioni dei soldati, ma non delle armi purtroppo, relative unicamente alle teste, con solo due opzioni aggiuntive per le armature.
    Animazioni eccezionali rendono le battaglie spettacolari da vedere con un lavoro fatto sugli eroi curato ma non a livello delle truppe base inspiegabilmente, e anche i veicoli, con il loro semplicissimo sistema di controllo, sono riprodotti con una dovizia di particolari incredibile.
    Battlefront infine si presenta con due camere distinte, permettendo ai giocatori di combattere anche in terza persona, o di entrare direttamente nel cockpit dei velivolo, sublime per immersione ma decisamente più complesso quanto guidabilità. 

Football Manager 2016

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Gestionale

  • Sviluppatore:Sports Interactive

  • Data uscita:13 novembre 2015 - Dicembre 2015 (Touch e Mobile)

     

     

    Football Manager, d'altronde, ha dimostrato di essere molto più puntuale della media dei corrieri italiani, di gran lunga meglio dei rimborsi sulle tasse e grossomodo in linea con le bollette di acqua, luce e gas.
    A differenza di queste ultime, però, la saga creata da Miles Jacobson e il suo team rappresenta qualcosa di cui nessun appassionato di calcio farebbe mai a meno, e, cionondimeno, si sforza di proporre sempre qualcosa di nuovo al giocatore, assumendosi dei piccoli rischi anche non avendone affatto bisogno.
    Andiamo a vedere cosa c'è di nuovo in questa edizione 2016.
    Com'è spesso accaduto guardando al recente passato di questa serie, le modifiche maggiormente pubblicizzate in fase di marketing si rivelano quelle meno influenti in termini di gameplay, sebbene alle loro spalle sia innegabile l'impegno profuso: la possibilità di creare un team da zero e quella di dedicarsi ad una versione online del classico fantacalcio con gli amici rappresentano una gradita ventata di novità, ma il cuore simulativo del gioco, nonché pilastro dell'esperienza ludica, rimane la modalità Carriera, che analizzeremo in seguito.
    Le due novità introdotte presentano alti e bassi, con una (il Draft) che si fa nettamente preferire all'altra, per una serie di motivi: se scegliere giocatori a turno dovendo rispettare un budget è qualcosa che noi italiani facciamo dai primi anni '90, tra scantinati, patatine e bibite gassate, la possibilità di farlo anche online, condividendo l'esperienza con amici sparsi per il mondo è decisamente benvenuta.
    Sebbene risulti una versione annacquata della modalità principale, dal momento che esclude dall'equazione tutte le variabili legate al calciomercato e alla gestione finanziaria del nostro team, questa modalità apre un filone importante per la serie, provando a far archiviare fogli e penne ai maniaci del pallone in favore di una versione digitale del fantacalcio, peraltro basata su un database eccelso come quello messo in piedi da Sports Interactive negli anni.
    Personalmente, questa modalità ha rappresentato un divertente diversivo, ma fatico ad esprimermi sulla reale possibilità che mandi in soffitta il fantacalcio con gli amici perché io stesso ho rinunciato a questa pratica da qualche anno ormai, straniato dai voti completamente random affibbiati dai giornali ai giocatori della nostra Serie A.
    Tornando in topic, nonostante qualche errore di gioventù (tra bug assortiti e un'impostazione un po' troppo ingessata), l'esordio di questa feature è da considerarsi positivo, e spero di vederla raffinata nel corso dei prossimi anni.
    Non posso dire lo stesso dell'altra grande novità, la modalità Create a Club, che consentirebbe al giocatore di iscrivere ad una competizione reale una propria squadra creata da zero: uso il condizionale perché, nei fatti, più che creare un team inedito, il giocatore sembra piuttosto acquistare una franchigia, in stile NBA, della quale però eredita aspettative, staff tecnico, budget e blasone, venendo conseguentemente molto limitato nella scelta dei giocatori, dei metodi di allenamento e del modo di stare in campo della squadra.
    Insomma, per far vincere la Bundesliga alla Longobarda la strada da percorrere è ancora piuttosto lunga e irta di difficoltà.
    La carriera, con le sue infinite possibilità e la grande flessibilità delle meccaniche di gioco, rappresenta ancora il piatto forte di Football Manager 2016, un piatto tanto ricco e saporito quanto dotato di un retrogusto amarognolo.
    Il mercato, attorno a cui ruotano scelte polarizzanti per i destini della nostra squadra (e del nostro incarico), ha goduto di modifiche poco reclamizzate ma decisamente impattanti, in termini di gameplay, e non tutte per il meglio.
    Innanzitutto, a differenza del recente passato, sbarazzarsi di giocatori non funzionali al proprio progetto tecnico è diventato assai meno difficile, con un continuo di richieste di quotazione e di offerte da parte dei team gestiti dall'intelligenza artificiale: nonostante le cifre offerte non siano delle più allettanti, il dinamismo delle sessioni di mercato è innegabile, e restituisce una sensazione di maggior realismo al pacchetto.
    Le quotazioni dei giocatori, invece, fanno di tutto per ammazzarlo, il realismo: se i cosiddetti top player rispecchiano le cifre stratosferiche riportate dai giornali, vedersi rifiutare un'offerta da cinquantaquattro milioni di euro dal Sassuolo per Berardi ed una di poco meno di venticinque per il giovanissimo Embolo dal Basilea allontana qualsiasi pretesa di realismo.
    Gli effetti nefasti di queste quotazioni gonfiate sono ancora più evidenti quando ci si ritrova a rimpiazzare un giocatore che non si aveva intenzione di cedere, ma che magari ha fatto pressione per essere lasciato andare dopo aver letto sui giornali che sarebbe arrivata un'offerta per lui: anche sotto questo aspetto il team di sviluppo ha ancora molto da lavorare, viste le continue lamentele che anche i giocatori più pagati e titolati sottopongono all'allenatore.
    Alla luce di questa situazione, non è infrequente trovarsi a dover cedere un giocatore scontento, magari nemmeno a cifre astronomiche, per poi scoprire che i soldi appena incassati non siano lontanamente sufficienti ad acquistare il sostituto che avevamo adocchiato.
    A parte questo, la profondità del database, la soddisfazione nel veder crescere il giovane talento acquistato per due lire e la possibilità di costruire squadre un tassello dopo l'altro riescono ancora a regalare soddisfazioni immense, tanto quanto vedere che un certosino lavoro di micro-management sull'allenamento individuale di ogni membro della rosa porta a risultati tangibili già dopo un paio di mesi, aprendo a nuove soluzioni tattiche.
    L'interfaccia è stata ulteriormente migliorata, e tende ad accentrare in una sola schermata il maggior numero di informazioni possibile, così da consentire al manager di avere sempre sotto controllo parametri fondamentali come le finanze della società, il clima che si respira nello spogliatoio e i tempi di recupero degli infortunati.
    Il suddetto dinamismo delle società gestite dalla CPU in sede di mercato, poi, incoraggia il giocatore a prendersi dei rischi, premiando coloro che assumeranno osservatori capaci e li manderanno ai quattro angoli del globo alla ricerca di talenti, da visionare più volte per averne un quadro sempre più preciso: la gestione della rete di osservatori ha raggiunto livelli di eccellenza, e la scelta dei collaboratori giusti rappresenta una delle chiavi del successo in Football Manager 2016.
    Tra le aggiunte va annoverato anche il nuovo editor dei calci piazzati, che farà felici i veri maniaci degli schemi su palla ferma, la figura del traghettatore, che prende una squadra in mano nel momento del bisogno ma, in genere, la lascia pochi mesi dopo e l'aggiunta di centinaia di nuove foto profilo per i giocatori, che aumentano il già eccellente livello di immedesimazione.
    Eccellente anche il grado di scalabilità: se il neofita può delegare la maggior parte dei compiti ai suoi fidi collaboratori, dagli allenamenti alle tattiche, passando per il calciomercato, il purista potrà dedicarsi a tutto in prima persona, sacrificando la sua vita sociale e i suoi legami affettivi nel processo.
    Ma questa, d'altronde, è l'essenza di Football Manager.

    Sebbene non rappresenti assolutamente la portata principale, quanto piuttosto un contorno sul quale è possibile soprassedere, è apprezzabile vedere come Sports Interactive continui a supportare e migliorare il suo motore grafico tridimensionale per la riproduzione delle partite.
    Ancora distante anni luce dai giochi al top nella categoria calcistica, la fisica del gioco migliora di uscita in uscita, con sempre nuove animazioni (circa duemila inedite per questa versione 2016) e la possibilità di vedere il proprio alter ego virtuale, creabile tramite un editor invero molto basilare ad inizio partita, sbracciarsi a bordo campo, manco fosse la versione digitale di Antonio Conte.
    Non mancheranno situazioni paradossali, come da tradizione, né animazioni ancora abbastanza goffe e legnose, ma questa opzione di visualizzazione (cui comunque continuo a preferire quella bidimensionale con vista dall'alto) riscuote, di anno in anno, sempre più successo, e, magari, di qui ad un decennio potrà competere con le produzioni più blasonate della categoria.
    Inutile, poi, parlare del sonoro e della longevità, perché sono, storicamente, i due aspetti più soggettivi della saga: l'uno, nella stragrande maggioranza dei casi, viene disabilitato prima di avviare la prima partita, non tanto per le sue deficienze ma per poter giocare il titolo in finestra (anche in ufficio) e l'altra, calcolata da Si Games in circa 180 ore di media per giocatore, è impossibile da quantificare, dipendendo esclusivamente dalle manie compulsive di ognuno dei quasi sessanta milioni di allenatori che vivono in Italia.. 

giovedì 12 novembre 2015

WRC 5

  • Piattaforme:PC, PS3, PS4, Xbox 360, Xbox One

  • Genere:Simulazione guida

  • Sviluppatore:Kylotonn

  • Data uscita:16 Ottobre 2015

     

     

     

Animal Gods

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Action-Adventure

  • Sviluppatore:Still Games

  • Data uscita:12 ottobre 2015

     

     

    Alcuni giochi propongono fin da subito un’esperienza dai toni ben definiti: nel caso di Animal Gods, titolo oggetto di questa recensione, stiamo parlando di ritmi lenti, blandi, sostenuti da un gameplay totalmente basato su meccaniche trial & error. Vediamo allora se queste premesse riescono a trasformarsi in qualcosa di positivo.

    La missione di Thistle non è di quelle delle più semplici: in Animal Gods, action bidimensionale sviluppato da Still Games, il suo obiettivo è quello di far tornare all’antico splendore i tre dei. Questi, nel momento in cui inizia il gioco, sono intrappolati da una setta guidata da tale Jessuh, determinata a cambiare le sorti di Sky Mirror, la città in cui è ambientata la vicenda. Thistle, in tutto questo, è una silenziosa sacerdotessa guerriera, che parlerà assai poco con il giocatore. Per conoscere veramente la storia del mondo narrato da Animal Gods, in effetti, ci si dovrà basare molto sui diari di gioco che possono essere ritrovati durante il proprio peregrinare. C’è da dire, però, che tutto questo non basta a dare un quadro complessivo chiaro della vicenda, e difatti è dalle poche righe di testo che costituiscono l’intelaiatura della storia che si comprende come il gioco sia stato sviluppato con poche risorse. I $ 26,000 raccolti grazie a Kickstarter, infatti, non hanno permesso agli sviluppatori di esprimere appieno tutte le idee di gioco, e difatti quello che abbiamo provato è stato un titolo che per forza di cose è un’opera un po’ incompiuta. Oltre a una narrazione già di per sé criptica, e poi affidata solo a poche righe testuali, troviamo una longevità di poco superiore alle due ore, che ci spinge a dire già da ora come i € 9,99 richiesti per l’acquisto del gioco abbiano tutto sommato poco senso, specie se si considera anche il gameplay proposto.
    Animal Gods propone una sfida decisamente minimalista: in buona sostanza si tratta di un action bidimensionale che cerca di ricalcare i primi capitoli della saga di Zelda, in cui la protagonista Thistle dovrà destreggiarsi tra tre zone principali, a loro volta divise in dungeon, e che propongono tre tipologie di sfida differenti. Le varie aree, dedicate agli dei caduti, permetteranno al giocatore di affrontare dinamiche di gioco che cambieranno per via dei tre poteri della protagonista; in una zona, allora, la nostra sarà in grado di utilizzare l’arco, in un’altra la spada, mentre nella terza potrà balzare su ostacoli vari grazie a salti più alti e lunghi.
    Difatti il livello di sfida sarà sempre elevato, e basato su componenti di abilità e strategia. Secondo gli sviluppatori, riuscire a venire a capo delle varie sfide sarà una questione soprattutto di puro tempismo e bravura, e in effetti non ci sentiamo di dargli torto; tra salti calibrati al millimetro, e colpi da scagliare calcolando velocità e distanza, i grattacapi saranno molti e la frustrazione farà spesso capolino. La sensazione è che queste tre sfide differenti siano più un esercizio di stile, piuttosto che parti di un insieme organico. E’ un vero peccato, in altre parole, che Animal Gods distingua in modo così netto tra le varie abilità di Thistle, impedendo di utilizzarle contemporaneamente nei vari dungeon. Anche qui, la prima causa che giustifica questa divisione radicale tra i momenti in cui si può saltare più a lungo, tirare di spada, o usare l’arco è la mancanza di fondi, la quale non ha permesso di creare livelli più complessi.
    Cercando di descrivere meglio le varie sfide proposte, la più interessante ci è sembrata essere quella relativa ai salti da compiere, che impegnerà i giocatori in mosse millimetriche al fine di superare gli ostacoli proposti; anche qui, la pochezza del gioco si riflette nel fatto che le minacce che andremo a incontrare non saranno altro che delle strisce viola, che non si comprende bene per quale motivo siano dannose per la protagonista. Insomma, si dovrà lavorare un po’ di fantasia, così come negli altri dungeon, dove gli avversari saranno dei quadrati arrotondati dotati di occhi. Anche i boss finali, presenti in ogni area, non si distaccheranno di molto da questo copione.
    Abbiamo detto dunque che Animal Gods è in ogni caso un gioco non così tenero con il giocatore: in effetti, le sfide non saranno delle più semplici, anche se per fortuna il sistema di salvataggio a checkpoint aiuta nelle situazioni più complesse. Certo è che la poca profondità dell’esperienza di gioco nel suo complesso, però, sminuisce quella che poi è la forza del gameplay del gioco, capace di proporre una sfida che gli appassionati di platform bidimensionali potrebbero non disdegnare.
    Una volta finito il titolo, peraltro, è da segnalare la possibilità di ricominciare l’avventura con la modalità Lives-09, che in sostanza ci costringerà a finire il gioco solo con 9 vite. Inutile dire come la difficoltà di questa opzione di gioco sia estrema, per non dire infida, anche perché la protagonista del gioco non sarà dotata di una qualsivoglia barra di energia; il primo colpo subito, in ogni modalità di gioco, equivarrà dunque a morte certa.
    Vista da una certa angolazione, l’estetica di Animal Gods non è del tutto malvagia; ci è apparsa positiva la scelta di incorporare alcune linee di testo direttamente all’interno del dungeon che si sta visitando, per esempio all’inizio delle varie aree visitate, e anche lo stive visivo di alcune zone non è per nulla negativo.Il gioco, di per sé, propone un ritmo assai lento e ragionato, un po’ per via delle sfide descritte in precedenza, un po’ per la lunghezza delle sezioni di intermezzo tra un dungeon e l’altro. Non bisogna dimenticare, infatti, che Animal Gods è sostanzialmente un open world, che consente al giocatore di giostrare da una zona all’altra in maniera tutto sommato semplice. Lo spostamento nell’area di collegamento tra le varie zone, però, avviene attraverso lunghi corridoi da attraversare, e tutto ciò impone al gioco un ritmo compassato.
    Molto positivo il comparto audio, che non propone delle vere e proprie musiche accattivanti, ma riesce a creare un’atmosfera rilassata e in qualche modo incantata, grazie a degli azzeccati rumori ambientali. In un titolo che non fa affidamento sul doppiaggio, si tratta pur sempre di un merito da sottolineare.
    Per ultimo, sottolineiamo la presenza di alcune problematiche tecniche che hanno afflitto le nostre prove; in un dungeon in particolare, la battaglia con il boss di turno non è partita correttamente perché il nostro personaggio, invece di camminare lungo il sentiero prestabilito, si è andato a infilare sotto il background del livello, risultando invisibile e incapace di intraprendere qualsiasi azione.