Ethero

domenica 29 marzo 2015

Battlefield Hardline

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Sparatutto

  • Sviluppatore:Visceral Games

  • Data uscita:19 marzo 2015

     

     

    La recensione di Battlefield Hardline è probabilmente una delle più difficili che ci capiteranno quest'anno: abbiamo tra le mani un brand noto e apprezzato che porta con sé però un cambio di rotta violento, con al timone un team di sviluppatori completamente nuovo per la serie, pronto a rivoluzionare davvero tutto. Battlefield porta ancora in grembo, tra le altre cose, la rabbia dei giocatori per un lancio davvero disastroso lo scorso anno e una campagna che proprio non ne vuole sapere di brillare come quella di Bad Company.
    Assurdo quindi pensare di approcciare con spensieratezza il titolo e ancora più grave il peso da portare quando, dopo averci giocato per più di una settimana, ti accorgi che le cose non sono andate tutte lisce come previsto e le novità hanno alti e bassi spaventosi.
    Come valutare un gioco che a tratti ti fa venir voglia di spegnere tutto e di estrarre il disco dalla console e invece dall'altra riesce a divertire con meccaniche rinnovate ma molto distanti da quelle che hanno reso celebre Battlefield? L'unica è spiegare per filo e per segno di ogni elemento cosa funziona e cosa non va e poi cercare di tirare le somme lasciando all'utente finale decidere quali siano i problemi accettabili e cosa invece non possa davvero essere tollerato.

    Cominciamo allora da una campagna singleplayer composta da soli dieci capitoli e terminabile, giocando in modalità veterano – la terza delle quattro disponibili –, in circa cinque ore. Un singleplayer dal quale ci aspettavamo davvero tanto di più perché a muoverne i fili è quella Visceral che di storie e narrazione se ne intende, quella stessa Visceral che ha dato vita a Dead Space facendo risorgere un genere ormai in declino. Con Battlefield, però, le cose non hanno funzionato e Hardline mette sul piatto le gesta di un poliziotto trasferito che si troverà a dover combattere contro la corruzione, i tradimenti ed ovviamente la malavita degli Stati Uniti, in un turbinio di cliché davvero raccapricciante.
    Non serve a Visceral l'impiego di attori del calibro di Benito Martinez, visto in the Shield, di Nicholas Gonzales o della sensuale Kelly Hu quando la loro performance a schermo non suscita nessuna emozione e il doppiaggio, spesso fuori sincrono, viene sotterrato dai rumori ambientali, dal volume troppo elevato. Ricompaiono tra le altre cose i problemi rilevati solo qualche settimana fa, con l'audio che improvvisamente sparisce, facendo addirittura perdere il filo del discorso.La storia si evolve sbattendo tra una scena già vista e un colpo di scena telefonato, senza mai davvero rapire il giocatore con la narrazione, trascinato più dalla voglia di completare la campagna per ricevere le insigne da sfoggiare nel comparto multigiocatore che per la curiosità scaturita dall'evolversi degli accadimenti. Il gameplay d'altra parte, non aiuta, con idee e meccaniche completamente insensate e bug a profusione.
    Non capiamo davvero come possa essere che un titolo del calibro di Battlefield esca in questo stato, con le prime avvisaglie segnalate già mesi fa quando avevamo provato il gioco per la prima volta.
    Visceral ha ben pensato che per sviluppare una storia poliziesca fosse necessario rimuovere praticamente del tutto l'essenza degli sparatutto, e la nuova ambientazione trascinata di forza in location cittadine ristrette rispetto agli enormi campi di battaglia precedenti, di certo non facilita le cose.
    Ecco allora che il nostro protagonista si troverà insignito del potere di arrestare i criminali semplicemente mostrando il suo distintivo, bloccandoli sul posto e facendoli arrendere quasi istantaneamente. Con la semplice pressione dello stick sarà poi possibile ammanettarli e lasciarli inermi sul terreno, immobilizzati e rimossi completamente dal contesto, esattamente come fossero dei semplici cadaveri. Non un grido di allarme, un movimento o un tentativo di liberarsi: mettetegli le manette e ve li sarete tolti dalle scatole per sempre. Un'idea che sulla carta potrebbe anche funzionare ma che in realtà “rompe” completamente il gioco visto che è talmente banale che vi consentirà di fare irruzione silenziosamente in un covo di nemici e arrestarli uno alla volta, portando a termine interi livelli senza nemmeno sparare un colpo. Il sistema stealth di Battlefield Hardline è uno dei più elementari visti ultimamente, con meccaniche che potevano andare bene forse quindici anni fa ma che oggi, davvero, fanno solo sorridere, o arrabbiare se pensiamo che è Battlefield quello a cui stiamo giocando.Hardline, come se non bastasse, incentiva questo modo di agire premiando il giocatore per ogni arresto silenzioso con punti che sbloccheranno armi e altri bonus. Gli scontri a fuoco, insomma restano un lontano ricordo, e ci si troverà coinvolti nelle sparatorie solo quando verremo scoperti dai malviventi. Questo porta in superficie altri elementi disastrosi di questa produzione: L'IA e la distruttibilità, praticamente nulle.
    Sull'intelligenza artificiale, ormai, non ci stupiamo nemmeno più visto che i nemici semplicemente si piazzeranno dietro la prima copertura a portata e ci spareranno contro, senza tattiche di aggiramento o virtuosismi, lanciando unicamente granate fumogene per stanarci, azione che indossando una semplice maschera antigas dall'inventario verrà neutralizzata. Certo, giocando a veterano basteranno davvero pochi colpi per morire, ma trovare una buona copertura non è poi così problematico e la possibilità di sporgersi dai ripari semplifica davvero tantissimo qualsiasi scontro a fuoco. L'introduzione delle nuove feature investigative, infine, non aggiunge nulla di valore al gioco ma sposta l'asticella dell'azione verso movimento più ragionati, guidati dalla necessità di frugare ogni singola zona con uno speciale scanner per trovare prove e indizi indispensabili per la risoluzione di vari casi secondari, risultando un mero orpello per allungare il brodo. Se dovessimo valutare il gioco fino a questo punto, e solo per il suo singleplayer, non raggiungeremmo quindi la sufficienza, con una campagna che si attesta addirittura al di sotto di quella pessima vista in Medal of Honor: Warfighter, senza nemmeno stare a fare paragoni, a questo punto insensati, con Bad Company.

    Primo grande dubbio relativo al multiplayer: dopo il disastro dello scorso anno con Battlefield 4 come andranno le cose questa volta? Decisamente meglio, si direbbe da questi primi giorni di test. Nel momento in cui scriviamo infatti i server Xbox One sono online già da qualche giorno e le cose procedono a gonfie vele. Nelle numerose partite da noi disputate non abbiamo notato lag o crash e anche l'ingresso alle partite, con la possibilità di settare filtri per la ricerca, non ha dato alcun tipo di problema rispondendo con velocità. Il pericolo sembra dunque scongiurato questa volta anche se c'è da aspettare ovviamente il day one, e la versione pc, per poterci ritenere completamente soddisfatti.
    Dicevamo nell'incipit che Battlefield Hardline è un gioco difficile da valutare perché se è vero che la campagna è un mezzo disastro da qualsiasi parte la si guardi, il multiplayer, con tutte le dovute limitazioni del caso, diverte. Diverte perché è profondamente diverso rispetto al passato e, pur mantenendo un gunplay riconoscibile e in linea con la serie, ne prende le distanze per quanto concerne ritmo e velocità di gioco. Appena messo piede online ci si accorge subito infatti di come le cose siano cambiate in maniera profonda: rimossi completamente gli aerei, tolti i carri armati e i mezzi pesanti e rivoluzionate completamente tutte le modalità presenti. Hardline è sempre Battlefield ma al contempo lo è in modo profondamente diverso, spesso riuscendo nel suo intento e altre volte fallendo in maniera pericolosa. Visceral ha voluto spostare l'attenzione dalle enormi battaglie viste in passato, pur mantenendo qualche modalità a sessantaquattro giocatori, gettando i giocatori in mappe di dimensione ridotta, difficilmente in mano ai cecchini, sminuendo però al contempo anche quella distruttibilità che è marchio di fabbrica della serie.
    Sono poche infatti le location che permettono di radere al suolo praticamente tutto e se togliamo The Block, le altre otto mappe rimanenti si contraddistinguono solo per il levolution, inserito più per colpire il giocatore che per necessità. La causa di tutto questo è da ricercarsi infatti nella limitazione pesantissima delle armi più pericolose come lanciarazzi e mitragliatrici, spostate ora da semplici equipaggiamenti per le classi a bonus sparsi in speciali casse poste nella mappa, limitate in numero e a disposizione dei due schieramenti. Visceral mette al centro del mirino insomma un nuovo scontro fra guardie e ladri, discostandosi dalla guerra militare assaporata negli ultimi capitoli e abbracciando una guerriglia urbana più ravvicinata. Il time to kill è diminuito pericolosamente, rendendo i fucili a pompa devastanti, per fortuna però senza influire troppo sui fucili da cecchino, ancora pericolosi ma mai snervanti.
    Il risultato è rappresentato da scontri a breve distanza sempre molto caotici e l'interfaccia, ancora piena di icone e segnalatori, partecipa a incrementare tutta questa confusione. Inutile dire che con combattimenti più rapidi una maggior pulizia dello schermo sarebbe stata auspicabile e nelle battaglie sembra spesso di combattere contro triangolini rossi e inseguire checkpoint piuttosto che giocare a un vero e proprio titolo di guerriglia. Cambia completamente anche il sistema di avanzamento per le classi, sempre le classiche quattro, ma ora rivisto in tanti aspetti. Il primo, grosso, cambiamento riguarda il sistema di unlock di armi e gadget ora lasciato al libero arbitrio del giocatore. Partecipando alle partite e completando i vari obiettivi verrete infatti ricompensati con i dollari, valuta che potrà essere utilizzata per acquistare qualsiasi arma o potenziamento presenti su Hardline. Si evita così di avere sbilanciamenti eccessivi dovuti al livello: ora se volete un'arma specifica vi basterà raccogliere un quantitativo necessario di denaro e sbloccarla. In linea generale con una/due partite nella modalità Hotwire, al momento, è facilmente possibile accumulare denaro sufficiente per prendere ciò che si desidera e sbloccare tranquillamente i gadget successivamente utilizzandola.
    Allo stesso modo sarà possibile migliorare gli oltre venticinque veicoli presenti (dagli elicotteri da trasporto, passando dalle moto fino ad arrivare a camion e mezzi blindati) aggiungendo rinforzi o armamentari extra, e acquistare gadget speciali o armi per il combattimento corpo a corpo. Fanno la loro comparsa infatti una quantità enorme di coltelli e armi contundenti, ognuno dal danno e dalla velocità di attacco differenti. Altra chicca che abbiamo apprezzato è invece la possibilità di usare il taser o stordire i nemici anche in multiplayer (conta esattamente come una uccisione) e di poterli interrogare sul posto, ricevendo così l'effetto di un UAV che segnalerà sul campo tutti gli avversari. Carina l'idea di aggiungere infine alcuni perks durante gli scontri dopo aver raggiunto un determinato quantitativo di reputazione, bonus che permarranno per tutta la durata del match e che garantiranno ad esempio granate aggiuntive o caricatori extra, tutti elementi dall'influenza comunque marginale sul bilanciamento.
    Tutti i veicoli aggiunti in Hardline sono inediti e decisamente più veloci di quelli a cui siete abituati normalmente ma riportano una fisica leggera, solo abbozzata che rende davvero ridicoli gli impatti, scatenando scene al limite del ridicolo. Eppure le nuove idee funzionano grazie ad una riuscita implementazione dei passeggeri, che possono sporgersi e sparare dai finestrini liberamente, così come la possibilità di uccidere sul colpo il pilota e far arrestare il mezzo, spesso causando roadkill caotiche e imprevedibili.

    Amavate Rush? Bene! È stata rimossa. Non temete però, perché al suo posto sono state introdotte cinque nuove modalità. Funzionano? Non tutte, purtroppo.
    Partiamo quindi da quello che funziona meno, da quel Crossfire che risulta troppo veloce e spesso si risolve con un camping forsennato ai punti di fuga del VIP. Se a qualcuno questo suona familiare è perché il buon Counterstrike sono quasi vent'anni che ha introdotto modalità similari e chiamare inedita Crossfire sarebbe davvero un azzardo. Sul titolo valve però il tutto funzionava meglio grazie a meno spazi aperti e mappe più articolate, cosa che qui invece non accade. Stesso discorso vale anche per Rescue, dove al posto di un membro della squadra da scortare i giocatori dovranno recuperare degli ostaggi fantoccio gestiti dall'IA, caricarli sulle spalle e trascinarli fino al punto di estrazione. Idea ancora una volta è vecchia anche se funziona decisamente meglio della precedente. Purtroppo in entrambi i casi, oltre all'obiettivo primario sarà possibile portare a casa lo scontro anche eliminando l'intero team avversario, una struttura che sulla carta aggiunge tatticismo e teamplay, tutto mandato a gambe all'aria dalla possibilità di rimettere in gioco gli altri membri del gruppo, sbilanciando di fatto la partita e trasformando i match in scontri tra team di soli assaltatori con siringhe e medikit.
    Le cose non vanno meglio in Hotwire, modalità originale dove ladri e poliziotti dovranno semplicemente prendere il controllo delle vetture rimanendoci sopra il più a lungo possibile per far esaurire i ticket al team avversario. Le partite vanno in breve tempo fuori controllo, soprattutto quelle con una cerchia ristretta di giocatori dove porre fine alla corsa degli avversari non solo risulta tedioso ma anche controproducente. Hotwire è la modalità favorita per il farming forsennato di dollari e la comunità sembra averlo capito tanto che già oggi le persone si piazzano sulle vetture nel tentativo di guadagnare più verdoni possibile, senza badare minimamente agli avversari. Con una partita si riescono a fare manciate di livelli e decine di migliaia di dollari: un bilanciamento è assolutamente necessario. Quello che più ci fa storcere il naso è che queste modalità potrebbero tutte funzionare in un qualsiasi setting e poco ci azzeccano con la vera essenza da guardia e ladri che Visceral voleva tentare di inserire con Hardline.
    Heist e Blood Money rappresentano invece secondo noi la vera essenza di questo Battlefield e quelle che metto davvero in mostra quello che il titolo doveva rappresentare in ogni suo aspetto. L'asimmetria delle mappe e degli equipaggiamenti di ogni fazione viene qui amplificata da obiettivi completamente opposti, e se vogliamo, soprattutto Heist tenta di riempire la falla lasciata da Rush. È l'unica modalità infatti che si sviluppa attraverso tutta la mappa e nella quale i giocatori continuano a cambiare postazione, dapprima per sfondare la cassaforte ed estrarre il malloppo e poi per portare in salvo le due valigette presenti, spesso spostando i punti di interesse continuamente, rendendo estremamente diversificate le partite, altrimenti davvero troppo statiche.
    Blood money invece, favorisce tantissimo il gioco di squadra e la buona estensione della modalità permette un ritmo più compassato, richiede un uso saggio dei mezzi e tutto sommato è quella che nel pacchetto completo ci ha soddisfatto di più.
    Resta il fatto che Visceral non abbia messo troppa cura nella costruzione delle mappe, che si adattano come estensione in base alla modalità di gioco, spesso rivelando punti per il camping eccessivi o veri colli di bottiglia dove i due team si scontrano in duelli troppo caotici.
    A completare l'offerta, non troppo ricca per un titolo venduto a prezzo pieno, ci si mettono due diverse tipologie di Conquista e il Team Deathmatch classico fino a 64 giocatori.
    Sarà curioso vedere infine come si svilupperà la community competitiva e se le “licenze” prese da FPS decisamente più competitivi riusciranno a portare Battlefield a livello di altre produzioni più indicate per gli e-sport, magari riuscendo a sfruttare meglio anche quella modalità Hacker al momento deludente e realmente noiosa, inserita chiaramente solo per poter essere apprezzata da team organizzati.
    A fronte di un singleplayer davvero deludente e un multiplayer che non brilla poi in maniera eccezionale, nonostante la sua capacità di divertire, è la cura nel dettaglio di questo Battlefield Hardline a lasciare perplessi. La campagna non riesce a coinvolgere a causa di un comparto tecnico altalenante, di pochissime scene degne di nota e da una generale noncuranza per i dettagli. Mancano animazioni facciali dei protagonisti durante le cut scene, l'illuminazione non è mai impressionante dal punto di vista visivo e le compenetrazioni dei poligoni sono molte e fastidiose. La meccanica dell'arresto poi fa perdere completamente qualsiasi velleità di immedesimazione visto che i nemici saranno impassibili mentre noi urleremo di alzare le mani, quasi fossero sordi. Imbarazzante inoltre la possibilità di lanciare bossoli per distrarre le guardie addirittura attraverso muri e finestre, passandoci direttamente in mezzo con l'animazione del braccio, come i peggiori giochi di quinta categoria. Per quanto riguarda il multiplayer ci siamo lamentati già abbondantemente della fisica dei veicoli, moto in primis, ma segnaliamo anche un forte sbilanciamento di alcune armi come il P90 ad esempio o l'AWR per i fucili d'assalto utilizzati quasi dalla totalità dei giocatori, sempre che questi non imbraccino uno shotgun per uccidere con un colpo solo qualsiasi cosa capiti a tiro.
    Poco e di rifinitura il lavoro fatto sull'interfaccia, con la segnalazione del tempo di respawn e delle classi in team, ma non abbastanza da snellirne la struttura. Visceral ha voluto dare a tutto il gioco un'impronta nettamente più veloce di prima, non prendendosi però la responsabilità fino in fondo. Sarà possibile infatti ricomparire direttamente alle spalle di un proprio compagno nel bel mezzo della bagarre e ricominciare subito a dare il proprio contributo ma bisognerà aspettare ben 10 secondi tra una morte e l'altra, un tempo morto che davvero inficia sul divertimento finale. Chiudiamo infine elogiando invece la stabilità e i 60 FPS su tutte le piattaforme, ottenuti con un promesso sul comparto grafico del multigiocatore, riducendo qualità e numero dei poligoni a schermo e manifestando un accentuato pop up della vegetazione. Battlefield 4 ci aveva abituati ad un colpo d'occhio decisamente migliore.

venerdì 20 marzo 2015

King's Quest

  • Piattaforme:PC, PS3, PS4, Xbox 360, Xbox One

  • Distributore:Activision

  • Data uscita:Autunno 2015





Con il ritorno del marchio Sierra, chi non è di primo pelo ha versato lacrime di gioia. In realtà il ritorno di questo storico marchio è solo simbolico, dato che l’azienda fu assorbita nel 2008 e ricostituita nel 2014, sempre sotto la guida di Activision Blizzard. In ogni caso, vedere un gioco che si apre con il mitico logo con la montagna ci porta alla mente tanti ricordi, che riecheggiano i nomi di Gabriel Knight, SWAT, Caesar e, naturalmente, King’s Quest.
L’avventura grafica creata da Roberta Williams risale al 1983, ed è costituita da otto capitoli usciti nel corso di quindici anni. Dal lontano 1998 (e in seguito al declino delle avventure grafiche sancito dall’esplosione delle console degli anni Novanta), questa serie è stata abbandonata assieme a tante altre. Così, il vecchio Graham da diciassette lunghi anni siede sul suo trono senza fare nulla, nonostante i tentativi di rianimazione da parte di Vivendi, Silicon Knights e persino di Telltale. Per nostra fortuna, il ritorno di Sierra e il particolare periodo storico che stiamo vivendo - che sembra premiare il ritorno di grandi classici del passato - hanno permesso la rinascita di questo franchise. La serie tornerà in un nuovo capitolo che promette di rilanciare la saga e che, come spesso si confà ai reboot, prenderà il nome di King’s Quest e che sarà rilasciato in forma episodica.
Gli sceneggiatori hanno tenuto conto di tutto il tempo passato, optando per una storia che torna indietro nel tempo e racconta la storia di Graham sin dalle sue origini. La formula scelta è quella del lungo flashback, attivato dal racconto di un nonno alla propria nipotina. Il vecchio narratore è Graham, ormai divenuto re di Daventry e al tramonto della propria vita. Il suo racconto è pieno di ricordi a volte confusi, a volte esagerati che hanno permesso al team di sviluppo di studiare un sistema per palesare la trama che ci ricorda, a tratti, quanto visto in giochi come Bastion o in The Stanley Parable. La narrazione, infatti, avviene con una voce fuori campo che commenta le nostre azioni, e che ironizza sui nostri errori. Se, ad esempio, si sceglie il percorso sbagliato e si muore, la voce nel momento del game over ironizza dicendo: “...e questo è quanto sarebbe accaduto se avessi scelto la strada di sinistra”. La leggerezza con cui viene raccontato ciò che accade sembra molto azzeccata, e ben si addice al tono ironico di un nonno che racconta le sue gesta ricordando i tempi che furono e sdrammatizzando i momenti più seri. Nonostante Roberta Williams non sia più al timone dell’avventura, il lavoro di scrittura ci sembra buono e siamo davvero curiosi di scoprire in che modo l’avventura progredirà.
Dal lato del gameplay, King’s Quest prevede un impianto piuttosto classico, ma adattato assai bene al controller. Parliamo di un punta e clicca senza puntatore, in cui è sufficiente avvicinarsi a un oggetto per interagirvi. Tutti gli enigmi si basano sull’utilizzo di oggetti o sulla combinazione di essi, e il pensiero laterale presente in molte avventure uscite tra gli anni Ottanta e Novanta lascia qui il posto a una logica più diretta. Questo non significa che King’s Quest si sbarazzi completamente degli elementi assurdi che hanno da sempre caratterizzato la serie: alcuni enigmi richiedono sequenze piuttosto complesse, che si risolvono spesso in maniere volutamente troppo complicate, al fine di creare un effetto comico al momento del climax. Ad esempio, per oltrepassare un fiume (in una sequenza che cita il primo King’s Quest) siamo passati dall’abbattere un albero allo scoccare delle frecce, fino a distrarre un gruppo di guardie e costruire una zattera improvvisata. Il tutto per poi scoprire che, in realtà, il fiume poteva essere guadato da alcune pietre a pelo d’acqua. L’idea è quella di dipingere Graham come “uno sfigato qualunque”, meno forte, intelligente, bello e carismatico di tanti eroi col mascellone, ma forte di una costanza (e pazienza) tale da permettergli di superare ogni sfida. E noi giocatori, alle prese con gli enigmi, finiamo inevitabilmente per volergli bene.
La storia non procede in maniera totalmente lineare, e il racconto del nostro vecchio re sembra modificarsi a seconda di alcune scelte compiute dal giocatore. Nel corso del primo episodio, ad esempio, avremo a che fare con un drago dormiente, intrappolato in una caverna. Dopo averlo distratto con un pezzo di carne consegnato attraverso un marchingegno da riattivare, infatti, avremo la possibilità di liberarlo o lasciarlo incatenato nella sua grotta. La scelta avrà delle ripercussioni sulla storia, e potrebbe modificare alcuni eventi nei capitoli successivi, tra cui il finale. Non parliamo di un gioco propriamente “a bivi”, ma va riconosciuta la presenza di alcuni elementi che potrebbero modificare l’esperienza di gioco, in quanto il racconto di Graham può influenzare il comportamento della nipote, la quale si troverà presto impegnata in un torneo. È facile capire quali saranno le ripercussioni morali delle nostre scelte, e il ruolo di “educatore” affidato al nonno Graham ci intriga.
Il gioco è stato realizzato con uno stile grafico equilibrato, che mescola personaggi in stile cel shading 3D con fondali che paiono dipinti a mano, il tutto senza complicare troppo i modelli tridimensionali. Ci troviamo di fronte a un’opera non troppo appariscente da un punto di vista grafico, una scelta che ha permesso certamente di contenere i costi del progetto ma che, grazie a una direzione artistica encomiabile, riesce a mascherare molte lacune. Il lavoro sulle animazioni è encomiabile, e va segnalata l’applicazione di una fisica davvero realistica al mantello di Graham, che volteggia per l’aria ad ogni nostro movimento. Le variazioni negli ambienti sono piuttosto marcate, e ad ogni scorcio offerto dalle inquadrature a telecamera fissa ci siamo fermati ad ammirare alcuni semplici ma efficaci dettagli.

Assassin's Creed Rogue


  • Piattaforme:PC

  • Genere:Action-Adventure

  • Sviluppatore:Ubisoft

  • Data uscita:10 marzo 2015 (PC)

     

     

    AC Rogue si è rivelato un titolo di tutto rispetto nell’economia della serie. Sicuramente più avvincente di Assassin’s Creed III e forse meno ambizioso di Assassin’s Creed IV: Black Flag, ma con tutti gli elementi al posto giusto per piacere ai fan della saga. Battaglie navali, combattimenti, esplorazione e un bel twist narrativo hanno reso AC Rogue un gioco per molti versi superiore alle attese, anche se tutti i limiti tecnici di PlayStation 3 e ancor di più di Xbox 360 ne hanno in parte frenato la piena riuscita. Anche per questo Ubisoft, affidando il lavoro ai suoi studi di Kiev, propone oggi AC Rogue su PC a quattro mesi dall’uscita su console old-gen. E lo fa, oltre che per ovvie ragioni di mercato, anche per superare tutti i limiti grafici (risoluzione e frame-rate soprattutto) visti a novembre su console. Il rischio però di un day one disastroso come quello di AC Unity c’è sempre di fronte al binomio Ubisoft-PC e quindi eccoci qui a provare con mano la bontà o meno del lavoro svolto da Ubisoft Kiev.
    Abbiamo provato AC Rogue con lo stesso PC utilizzato per la recensione di Evolve, ovvero un processore Intel Core i7 930 overcloccato a 4 GHz, una GeForce GTX 770 con 4 GB di VRAM, 12 GB di RAM e un SSD Samsung 840 Pro da 512 GB, il tutto sotto Windows 7 e con gli ultimi driver Nvidia disponibili al momento di scrivere (347.88). Fermo restando che non bisogna aspettarsi nulla di paragonabile ad AC Unity bensì qualcosa di molto simile ad AC IV: Black Flag, con cui AC Rogue condivide il motore grafico, la prima impressione è stata assolutamente positiva. Abbiamo ottenuto i 60 fps con tutti i dettagli al massimo e Vsync attivato, ma l’impressione è che anche PC peggio equipaggiati del nostro non faranno fatica a ottenere un ottimo frame-rate senza per questo rinunciare alle opzioni grafiche presenti. Che non sono moltissime, ma che riescono comunque a fornire un buon banco di prova per un gioco che, è bene ricordarlo, è stato sviluppato con in mente un hardware di otto-nove anni fa. L’assenza che forse dispiace di più è quella di due o tre modalità di antialiasing aggiuntive (ci si deve accontentare della sola FXAA), presenti invece nella versione PC di AC IV: Black Flag. Un indizio che ci fa capire come Ubisoft Kiev abbia puntato soprattutto alla massima fluidità a scapito della qualità, visto che anche la distanza di visione, la vegetazione, le espressioni dei volti, certe animazioni e il riciclo di diversi elementi scenici presi direttamente da AC IV: Black Flag non sono esattamente un bel vedere. 
    Eppure non mancano impostazioni per texture, ombre, riflessi, occlusione ambientale, nebbia volumetrica, filtro anisotropico, oceano e raggi crepuscolari (che poi sarebbero una versione meno fine dei God Rays). Attivati tutti e impostato il resto alla massima qualità, i nostri 60 fps sono stati pressoché granitici in ogni situazione, calando di pochi fps solo nell’ingresso delle cut-scene. Nessun fenomeno di stuttering, ottimizzazione della memoria impeccabile (2 GB di VRAM bastano e avanzano), nessun bug davvero grave incontrato in circa 10 ore di gioco. Poi è vero che sono rimasti ancora dei glitch grafici da risolvere (almeno speriamo) con una seconda patch dopo quella davvero mini (45 MB) del day one, ma anche in questo caso non si tratta di nulla di drammatico. Andando a memoria, non ricordiamo una versione PC di Assassin’s Creed uscita così bene fin dal primo giorno e se ciò si può capire anche per le origini del gioco stesso, che non deve certo muovere su schermo tutto il ben di Dio di AC Unity, rimane il fatto che anche AC IV: Black Flag era andato incontro a non pochi problemi alla sua uscita su PC, mentre qui è filato tutto liscio. Per conoscere tutto il resto sul gioco, vi rimandiamo alla recensione per console già citata sopra, ma se aspettavate questo port su PC per godervi una grafica quanto meno gradevole e non così limitata dall’hardware di Xbox 360 e PlayStation 3, la vostra attesa è stata ripagata a dovere. Certo, non aspettatevi un quadro grafico di riferimento nonostante l’ottima resa dell’acqua e alcuni panorami da mozzare il fiato, ma se cercavate stabilità, fluidità e una piena giocabilità senza bug, crash e altre magagne sarete accontentati.      

giovedì 19 marzo 2015

Resident Evil Revelations 2

  • Piattaforme:PC, PS3, PS4, Xbox 360, Xbox One

  • Genere:Survival horror

  • Sviluppatore:Capcom

  • Data uscita:25 febbraio 2015 - Primavera 2015 (PS Vita)

     

     

    Conclusi i quattro episodi di Resident Evil: Revelations 2, giunge il momento di tirare finalmente le somme e valutare l’intero pacchetto. Per la saga si tratta del primo esperimento di natura episodica, tentato al di fuori della serie principale forse più per tastare il polso ai giocatori, che non per apportare effettive novità all’interno del franchise. Per funzionare a dovere, c’era la necessità di sviluppare i singoli episodi in modo tale da non appiattire troppo la trama, e renderli in qualche modo autoconclusivi e privi di trovate di dubbio gusto. In realtà, nonostante le puntate siano state solo quattro, si perde ben presto quel senso di scoperta che dovrebbe spingere i giocatori a voler passare subito all’appuntamento successivo. I motivi dietro a questo tentativo per certi versi malriuscito risiedono in diversi aspetti della produzione: dalla progettazione di una trama sfilacciata, altalenante e spesso poco coesa, fino ad arrivare a scelte di game design a tratti davvero scellerate, Revelations 2 si rivela un Resident Evil a mezzo servizio, in bilico tra un progetto dal budget contenuto e un esperimento concepito con poca lungimiranza.
    Fino alla prima metà, tutto sommato, il titolo riesce a mantenere costante l’interesse degli utenti; a partire dal terzo episodio, invece, Revelations 2 non riesce a essere appassionante come dovrebbe. Nella seconda metà di gioco la storia viene diluita, è orchestrata male, manca di mordente, e si trascina stancamente fino al finale, che è uno dei meno esaltanti visti fino a oggi all’interno della serie. Ai due veterani, Claire e Barry, sono stati affiancati due nuovi personaggi, Natalia e Moira, ma quest’ultima risulta essere la peggiore in assoluto del quartetto. La figlia di Barry, infatti, è mal caratterizzata ed è persino inutile nell’economia di gioco. Si tratta di un personaggio di supporto che per gran parte dell’avventura è in realtà d’impaccio. Non ha abilità degne di nota, è sboccata e antipatica, e raramente vi renderete conto che è lì accanto a voi per essere controllata a piacimento. Natalia, al contrario, è persino migliore dei reduci storici della saga, sia perché ha un ruolo di primo piano nella storia, sia perché è intrigante e ha dei poteri che danno un apporto decisivo alla varietà del sistema di gioco. La ragazzina è indifesa e vulnerabile, ma può avvertire la presenza dei mostri anche attraverso le pareti; non prenderà mai un’arma in mano, ma assieme a Barry forma la coppia meglio assortita, quella che ha quel quid in più capace di far alzare - di poco - la valutazione finale dell’opera. Nella loro campagna in particolare si è anche incoraggiati ad avere un approccio un po’ più stealth, soprattutto ai livelli più alti di difficoltà. Questa trovata ci è piaciuta, offre delle soluzioni diversificate, e spezza i ritmi da sparatutto in terza persona che la fanno da padrone per un’alta percentuale del gioco. Peccato solo che alcuni episodi cadano in un vuoto di idee che sorprende in negativo, lasciando capire che Revelations 2 non riuscirà nemmeno nel finale a colmare le lacune che si è lasciato dietro.
    Nel corso di queste settimane abbiamo parlato abbondantemente dei quattro episodi che compongono Revelations 2, tuttavia, dovete sapere che ce ne sono altri due, uniti sotto la modalità campagna. Più che episodi apocrifi, possiamo definirle due varianti alla formula di gioco classica, che coinvolgono Moira e Natalia separatamente. La figlia di Barry è protagonista de “La prova”, ossia di una serie di brevi missioni di caccia ed eliminazione dei nemici, assieme a un personaggio secondario già incontrato durante la campagna affrontata in compagnia di Claire. Per l’occasione, si visiteranno alcune delle aree viste in precedenza, dovendo però raggiungere degli obiettivi ben diversi, che aprono uno spiraglio su un momento specifico della storia che preferiamo ovviamente non rivelarvi. In “Piccola donna”, Natalia è chiamata a raccogliere le lettere che le ha lasciato il suo peluche, sparse lungo diversi livelli in cui bisogna necessariamente occultarsi alla vista dei nemici. Questa modalità, assai strana e dall’atmosfera onirica, prevede la presenza di una versione oscura di Natalia, che può passare indisturbata tra i nemici e indicare l’esatta ubicazione dei mostri alla versione standard, a cui è consigliato spostarsi accovacciata e col giusto tempismo. Vi ritroverete dunque a controllare alternatamente Dark Natalia, che incarna di fatto i misteriosi poteri visti durante la campagna, e la sua versione normale, che altri non è se non una qualunque ragazzina spaurita. Sono in sostanza delle missioni stealth in cui bisogna osservare le routine dei nemici e sgattaiolare via fino al punto di arrivo. Purtroppo, vista la grande libertà (e invulnerabilità) dell’alter ego oscuro di Natalia, le missioni non sono particolarmente complicate da portare a termine, ma sono perlomeno più diversificate rispetto a quelle di Moira, che al contrario somigliano più a un adattamento meno convulso degli incarichi presenti in Raid.
    Se c’è una critica che non può in alcun modo essere mossa a Revelations 2, è certamente la mancanza di contenuti. Considerando che la stagione completa passa al vaglio senza infamia né lode, ci è sembrata una buona scelta quella di rimpolpare un po’ il pacchetto completo con modalità extra che potessero tenere impegnati i giocatori per più tempo. Oltre ai due capitoli supplementari con protagonisti i nuovi personaggi, spicca in particolar modo Raid, una modalità votata completamente all’azione che prevede l’eliminazione totale dei i nemici che appaiono all’interno di arene di grandezza variabile. Ovviamente, ci sono anche alcune varianti, ma il cuore principale di Raid risiede nella competitività che si viene a creare tra gli utenti, che mirano al punteggio e al tempo migliori senza più preoccuparsi di una conduzione di gioco più tranquilla e ragionata. Qualche personaggio va sbloccato dopo aver completato la modalità principale alla massima difficoltà, mentre per ottenere tutti gli altri, assieme alle armi e ai bonus, è necessario soddisfare alcune condizioni specifiche che diverranno sempre più severe per via degli ostacoli crescenti. Va segnalata poi la presenza di microtransazioni, ma si tratta di un opzione marginale che difficilmente prenderete in seria considerazione. Tutto sommato, Raid potrebbe trattenervi anche più della campagna, a patto che da un Resident Evil cerchiate ciò che con la serie ha in realtà ben poco a che fare.
    Revelations 2 ha in definitiva una buona quantità di carne al fuoco, ma lo sbilanciamento tra gli episodi e alcuni difetti congeniti di una struttura costruita con qualche leggerezza di troppo, ne minano sensibilmente la qualità finale. Questo secondo capitolo, di fatto, rappresenta un passo indietro rispetto al primo Revelations.

Zombie Army Trilogy


  • Piattaforme:PC

  • Genere:Sparatutto

  • Data uscita:27 marzo 2015

     

     

    I due episodi di Nazi Zombie Army pubblicati da Rebellion nel 2013 hanno avuto il merito di allargare lo spettro di Sniper Elite V2, introducendo dinamiche cooperative in stile Left 4 Dead, scontri ravvicinati da sparatutto classico e un sottofondo horror davvero godibile, anche grazie alle musiche che sembravano uscite da un film di John Carpenter. Si trattava di due mini spin-off molto diversi dal gioco principale che rinunciavano allo stealth, alla tattica e al lento procedere tipico di Sniper Elite, ma proprio per questo avevano un loro senso e nonostante in singolo potessero risultare fin troppo ripetitivi e avari di sorprese, in co-op funzionavano alla grande. Ora Rebellion, dopo il buon successo di Sniper Elite III, ripropone i due Nazi Zombie Army in un nuovo pacchetto dal titolo Zombie Army Trilogy, che comprende anche un terzo episodio inedito ambientato in una Berlino da incubo invasa dagli zombi e da altre creature guidate da un Adolf Hitler in versione “posseduto”. Lo spunto dietro a Nazi Zombie Army era infatti il ritorno in vita dei soldati tedeschi grazie a un’arma segreta (per così dire) del Fuehrer, che pur di non soccombere di fronte alle armate sovietiche entrate a Berlino se ne uscì con la bella idea di far nascere un esercito di zombi.  
    Se eravate abituati alle mappe vaste di Sniper Elite III, alla sua grande libertà di azione e a un elemento stealth molto preponderante, Zombie Army Trilogy vi spiazzerà completamente. Certo, rimangono sempre l’accurato sistema di cecchinaggio con direzione del vento e stabilizzazione della mira, anche se solo a livello difficile questi due parametri influenzano davvero l’esito degli scontri. Il fatto è che di fronte a queste ondate di nemici (gli zombi non si presentano mai da soli purtroppo) il caro vecchio fucile di precisione non servirà a molto, o almeno non come in Sniper Elite. Lo si può sempre utilizzare da una postazione rialzata o da una certa distanza dalle orde di zombi, ma presto ci si accorge come siano molto più determinanti gli esplosivi (granate, mine, dinamite) e la seconda arma, che può variare da uno shotgun a un piccolo mitragliatore molto più utili del fucile di precisione per uccidere gli zombi da breve distanza. Il gameplay è insomma molto più frenetico e diretto, anche perché l’assenza di un sistema di coperture e del salto ci obbliga ad agire sempre allo scoperto e ci impedisce di scavalcare muri o altri passaggi per tentare una fuga nei casi più disperati. Le situazioni dove risalta maggiormente l’approccio di queste tre espansioni è quello degli assedi, in cui bisogna resistere a ondate di zombi difendendosi in un piccolo spazio. Qui il fucile di precisione diventa quasi inutile e bisogna quindi ricorrere alle armi secondarie, agli esplosivi e all’attivazione di trappole là dove presenti per sperare di uscire vivi.
    Giocato solo in singolo, Zombie Army Trilogy (qui recensito in versione PC) non ha però molto senso. Dopotutto manca una vera e propria trama, il nostro personaggio (quattro quelli tra cui scegliere) non si evolve nel corso delle missioni, i livelli sono piuttosto lineari e manca un vero e proprio incentivo a proseguire, a parte il punteggio per ogni uccisione (più o meno difficile o spettacolare) che finisce dritto nella classifica online del gioco. Certi passaggi con i boss o con orde particolarmente toste vedono poi un’impennata improvvisa ed eccessiva della difficoltà, che può portare a momenti frustranti considerando i pochi checkpoint automatici per il salvataggi e la loro dislocazione non proprio impeccabile. Se invece si trovano altri due o tre compagni di gioco, Zombie Army Trilogy guadagna un po’ in tutti i comparti. Le missioni si fanno più divertenti e varie e si possono mettere in pratica anche delle piccole tattiche, sfruttando contemporaneamente il fuoco di precisione dall’alto, quello ravvicinato e il ricorso agli esplosivi. Purtroppo il co-op è solo online, ma il matchmaking funziona bene e il net-code su PC ci è parso stabile, sebbene la percentuale di abbandoni durante i match sia molto più alta rispetto ad altri giochi (che gli zombi stiano iniziando a stancare?). 
    Dei tre episodi contenuti in questa raccolta il terzo (quello inedito) ci è parso il migliore. Evidentemente Rebellion ha ascoltato le richieste dei giocatori ed è riuscita a costruire livelli con un design migliore, più articolato e meno lineare; non è un caso se proprio nel terzo episodio siamo riusciti a usare più spesso il fucile di precisione rispetto a quanto fatto nei due capitoli del 2013 e, per gli amanti di Sniper Elite, si tratta di un fatto certamente positivo. La longevità totale di Zombie Army Trilogy, almeno a livello medio, è di circa 13-15 ore, ma con la nuova modalità in stile Orda con cinque mappe (anch’essa affrontabile in co-op) e puntando sul livello difficile, almeno una ventina di ore ci stanno tutte. Per quanto riguarda il prezzo, su Steam è possibile acquistare il gioco a 41,99 euro, ma fino al 3 aprile c’è uno sconto del 30% se già si possiede uno capitolo di Nazi Zombie Army o del 60% se si hanno già tutti i due episodi del 2013. Peccato comunque non poter acquistare separatamente solo il terzo capitolo inedito e in ogni caso, trattandosi di una raccolta composta per i due terzi da contenuti risalenti ormai a due anni fa, ci saremmo aspettati un prezzo più aggressivo contando anche i pochi contenuti inediti a parte la modalità Orda e i nuovi personaggi femminili. La parola Remastered utilizzata da Rebellion in fase promozionale ci è parsa inoltre esagerata, visto che solo il terzo episodio inedito lascia intravedere qualche accortezza in più nelle animazioni e nei filmati di intermezzo. Resta il fatto che Zombie Army Trilogy non è affatto un brutto gioco da vedere e l’immancabile X-ray Kill Camera, resa ormai celebre da Sniper Elite V2, funziona sempre alla grande, sebbene continui a fare più effetto se applicata a un soldato vivo della serie principale che non a uno zombi.  

Lego Jurassic World

  • Piattaforme:PC, PS3, PS4, Wii U, Xbox 360, Xbox One

  • Genere:Action-Adventure

  • Data uscita:Estate 2015

     

     

    Quella che vi stiamo per raccontare è una storia di cui sapete già il finale. Perché, da quando le parodie Lego dei più grandi film, i TT Games non hanno sbagliato un colpo. Ci sono stati episodi riusciti meglio di altri, certamente, ma in generale i prodotti Lego sono di ottima qualità e il gameplay, per quanto sempre uguale a se stesso, riesce ancora a divertire e ad offrire una longevità di tutto rispetto.
    Con la sua leggerezza e una straordinaria inventiva di chi, ogni anno, riesce a convertire un opera cinematografica in un videogioco a mattoncini, la serie Lego ci lascia sempre il sorriso sulle labbra e siamo sinceramente curiosi di scoprire quali scene sono state oggetto di parodia in ogni gioco.
    Così, quando alla GDC 2015 abbiamo scoperto che il “misterioso gioco” di Warner Bros. altro non era che Lego Jurassic World, eravamo piuttosto contenti. Perché, in fin dei conti, siamo cresciuti con l’opera di Spielberg e l’arrivo del quarto capitolo della saga porterà un rinnovato interesse nei confronti di questo universo creato dal rimpianto Michael Crichton.
    Come abbiamo scritto in apertura, sapete già come andrà a finire. Non parliamo della trama, ma piuttosto di come pubblico e critica accoglieranno questo gioco: non dobbiamo aspettarci grandi novità da questo prodotto, e in generale in Lego Jurassic World troveremo tutte le caratteristiche dei precedenti giochi di questa serie, e in particolare dei più recenti.
    Il gameplay si traduce nel solito action adventure in cui i vari personaggi presenti nel gioco hanno abilità uniche. Il giocatore è chiamato a passare in rassegna i propri personaggi per risolvere alcuni semplici enigmi, e il gioco ci chiede spesso di prendere a cazzotti lo scenario per rivelare alcuni pulsanti o leve nascoste, o per ricostruire con i mattoncini degli oggetti utili al prosieguo dell’avventura. Durante la prima prova abbiamo avuto la sensazione che, questa volta, il gioco propenderà più per l’esplorazione e la fuga che per il combattimento, ma siamo abbastanza certi che vi sarà occasione di menare le mani.
    Ancora una volta, il mondo di gioco mischia parti realizzate con una grafica “da diorama” con altre completamente modellate con i Lego, che mettono in risalto la grande creatività dei modellisti 3D nel creare degli oggetti o degli edifici complessi attingendo soltanto dagli asset forniti dalla celebre azienda danese. In generale, nonostante la relativa ripetitività degli ambienti selvaggi, i luoghi visti nei film sono perfettamente riconoscibili, ed è un vero piacere ritrovare certi luoghi apprezzati al cinema: anche da questo punto di vista, nessuna novità.
    Per quanto concerne le aggiunte al gameplay, tutto ruota attorno alla presenza dei dinosauri. I rettili giganti non saranno solo dei temibili nemici in alcune sequenze, ma diventeranno dei personaggi da controllare in determinati frangenti del gioco. La celebre sequenza in cui la dottoressa Sattler mette le mani nella cacca di un triceratopo per curarlo (che le film termina con la separazione degli ospiti in due gruppi), nel videogioco si conclude con il lucertolone che guarisce e può essere controllato dal giocatore per sfondare un muro e proseguire. È evidente che l’uso dei dinosauri è limitato rispetto a quello dei personaggi umani - pardon, “omini” - e nel gioco saranno presenti 20 rettili da controllare a cui saranno dedicate delle sezioni particolari del gioco, oltre a qualche personaggio inaspettato (ve la ricordate l’elica del DNA parlante presente nel cartone animato contenuto nel primo film?), per un totale di 100 personaggi.

    Allo stesso modo, vi saranno delle sequenze semi-scriptate in cui avremo incontri ravvicinati con i più grossi esemplari di dinosauro o fughe rocambolesche a bordo di veicoli. Nella demo presentata a San Francisco abbiamo apprezzato la celebre sequenza di Jurassic Park in cui il tirannosauro fugge dalla gabbia e attacca le auto con all’interno i nipoti di Hohn Hammond. Come nel film, dobbiamo salvare i pargoli dalla macchina e lasciare che il t-rex si pappi l’avvocato seduto sulla tazza. E, in pieno stile Lego, nella parte più drammatica in cui Gennaro finisce nelle fauci del tirannosauro lo si può notare intento a pulirgli i canini con lo scovolino del water.
    Lego Jurassic World includerà tutti e quattro i film prodotti da Spielberg, a partire dal capolavoro del 1993, passando per Il mondo perduto - Jurassic Park del 1997 e per il dimenticabile Jurassic Park III diretto da Joe Johnston. Il quarto film, opera che dà il titolo al videogioco, arriverà nelle sale a giugno e, al momento, non ci è dato sapere quali saranno i contenuti né quali scene epiche saranno riportate nel videogioco. Possiamo supporre che, vista la centralità del dinosauro geneticamente modificato Indomitus Rex in questo film, il famelico gigante sarà incluso nella lista dei personaggi giocabili. O, perlomeno, dobbiamo attenderci un incontro ravvicinato con il bestione.
    Poiché il gioco ha la licenza ufficiale, nel titolo ritroviamo tutte le splendide musiche di questa saga, incluso lo straordinario tema presente nel primo film scritto da John Williams.

Sid Meier's Starships

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Strategico

  • Sviluppatore:Firaxis

  • Data uscita:12 marzo 2015

     

     

    Non più tardi di un mese faho recensito Endless Legend, titolo attraverso cui Amplitude Studios è andata a sfidare sul suo stesso terreno la più celebre firma di Firaxis Games. La risposta a cotanto ardire è Sid Meier's Starships, concorrente diretto per l'altro gran titolo della softco francese: Endless Space.

    Assolutamente nulla da condividere con i vari Civilization, Alpha Centauri o il più recente Beyond Earth dunque: qui non si bada alla conquista di un pianeta ma di interi sistemi stellari, e per farlo si utilizza ciò che dà il nome al gioco, ovvero navi spaziali. Effettivamente mancava nel portfolio della controllata di 2K Games specializzata in strategici un titolo 4X interamente ambientato nello spazio e, come detto in apertura, la motivazione più logica è quella di volersi giocare le stesse carte della serie diventata ormai una rivale decisamente accreditata: seppur uscito da ormai quasi tre anni continua a riscuotere successo e soprattutto non cessa di essere l'attuale punto di riferimento per un genere le cui origini risalgono agli anni '80 con Starflight e che si è ampiamente evoluto negli anni '90 e 2000 con prodotti quali Imperium, Rules of Engagement, i tre Master of Orion, i due Galactic Civilizations e molti altri sino appunto ad arrivare a Endless Space.
    Ciò limitando il campo ai soli strategici a turni, sottogenere in cui pienamente rientra Starships, nei quali l'impostazione delle partite prevede la scelta una civiltà tra le disponibili oltre a impostazioni differenti quali le dimensioni dell'universo, il numero degli avversari e l'immancabile livello di difficoltà. Quello che muta totalmente rispetto a prodotti come Civilization è invece la struttura della mappa, composta da diversi sistemi solari distribuiti in maniera più o meno uniforme a rappresentare quella che è una galassia che si sviluppa in due dimensioni. Si inizia controllando un unico sistema natale e un'unica flotta, naturalmente con lo scopo di espandere i propri domini prima che lo facciano gli imperi rivali trovandosi comunque presto a scontrarsi con loro così come con pirati e indigeni che popolano spazio e pianeti.

    Passando alle peculiarità di Starships c'è subito da notare come ognuno degli otto leader di fatto riprenda quelli di Beyond Earth: questo titolo vuole infatti portarne avanti l'ambientazione a quando le fazioni hanno smesso di battersi per il controllo di un unico nuovo mondo cominciando a espandersi in lungo e in largo per i bracci a spirale. Lo si vede nel fatto che possono esseri legati alle stesse affinità viste in BE, ossia Supremazia, Armonia e Purezza: conferiscono un diverso bonus di partenza, come una meraviglia già bell'e pronta, la riduzione del 50% del costo delle navi oppure un boost del doppio dell'esperienza acquisita in combattimento. Bonus che si sommano a quelli dei leader stessi, come tecnologie già scoperte, navi, città o crediti aggiuntivi. Dalla scelta iniziale dipende insomma buona parte della spinta propulsiva di cui si dispone una volta avviata la fase esplorativa. Altra connessione tra i due titoli è quella che si può stabilire utilizzando il proprio account My 2K per sbloccare caratteristiche del gioco altrimenti inaccessibili come le affinità ibride, alcune missioni e particolari tipologie di pianeti.
    Infatti al primo sguardo della mappa di gioco ci si rende subito conto di una cosa: la rappresentazione di ogni sistema è semplificata nella forma di un singolo pianeta. Questi hanno caratteristiche molto differenti potendo per esempio essere vulcanico offrendo più energia, terrestre producendo più cibo, ghiacciato garantendo più scienza e infine arido fornendo più metalli per turno. Queste sono appunto i quattro tipi di risorse principali il cui accumulo, insieme ai crediti utili per acquistare ciò che si vuole, permette di far progredire il proprio impero: l'energia serve per riparare e potenziare le navi, i metalli a costruire meraviglie e miglioramenti planetari, la scienza per ricercare nuove tecnologie (anch'esse finalizzate al miglioramento dei vascelli) e il cibo per mantenere e aumentare la popolazione.
    Ogni sistema va influenzato facendovi visita e così acquisirne il bonus in risorse attraverso l'instaurazione di una rotta commerciale, sino a poter raggiungere un grado tale da annetterlo e quindi cominciare a costruirvi miglioramenti planetari e città finalizzati a incrementare il rateo d'ottenimento delle risorse, che in caso di necessità possono anche essere scambiate l'una per l'altra tramite il mercato. Inoltre vi sono difese, meraviglie di vario genere e tunnel spazio-temporali tra un sistema e l'altro utili per non fare stancare gli equipaggi durante gli spostamenti, così da poterne sempre disporre al massimo delle forze. 
    Arrivando con la flotta in un sistema non direttamente controllato parte quindi la battaglia, ambientata su una mappa a caselle esagonali rigorosamente bidimensionale al cui centro vi è il pianeta oggetto del contendere circondato da campi di asteroidi che aggiungono pepe tattico sia limitando la libertà di movimento sia offrendo riparo dai colpi, poiché per portarli a segno (pur non essendo contemplato il fuoco amico) occorre avere una linea di tiro pulita. Sono inoltre presenti particolari passaggi a imbuto che offrono bonus ad attacco e difesa e wormhole che permettono di teletrasportarsi istantaneamente da un punto all'altro. In particolare, nel caso si tratti di un sistema ancora neutrale avremo a che fare con missioni in cui verremo chiamati ad adempiere a obiettivi piuttosto diversificati come annientare i pirati che lo infestano, impedire la fuga di criminali oppure arrivare a controllare avamposti, completati i quali verremo ricompensati con punti influenza e un extra di risorse. Nel caso di regioni già controllate da altri imperi o difesa del nostro territorio altro non dovremo fare che ridurre le unità dell'avversario a un cumulo di detriti.
    Per farlo avremo a disposizione cannoni cinetici a corto raggio e armi a lunga gittata, nello specifico laser per colpi diretti e i più lenti ma assolutamente letali siluri, che vanno sparati prevedendo gli spostamenti nemici poiché si possono far detonare anche tre turni dopo averli lanciati a patto che ci sia qualcosa da far esplodere lungo il loro percorso. Da non dimenticare gli strumenti passivi come la potenza dei sensori che determina la distanza da cui saremo in grado di rilevare gli avversari e la schermatura, che permette di ridurne l'efficacia dei colpi. Infine vanno citati i veloci stormi di caccia, utili sopratutto come esche.

    La differenza tra la vittoria e la sconfitta la fanno soprattutto il livello dei potenziamenti montati sulle navi madre, oltre naturalmente il loro numero,. Ci sarebbe anche l'abilità del giocatore non fosse che, purtroppo, l'intelligenza artificiale fa di tutto per renderla superflua buttandosi a pesce su piogge di siluri come se non ci fossero oppure accanendosi sui caccia quando invece dovrebbe pensare al bersaglio grosso. Vero è che sono ci sono quattro livelli di difficoltà, ma anche al più avanzato, passate le prime decine di turni in cui si parte in palese svantaggio, non ci vuole molto prima di comporre una flotta decente con cui annichilire avversari ben più numerosi una volta che si sapranno sfruttare queste palesi lacune ribaltando pronostici, forniti prima dell'avvio ogni scontro (è sempre possibile ritirarsi, sia prima sia durante gli scontri), anche decisamente sfavorevoli.
    In altre parole Sid Meier's Starships fa cilecca proprio laddove uno strategico fatto come si deve dovrebbe garantire un livello di sfida tale da catturare il giocatore per giornate intere. Si potrebbe sorvolare sulla scarsa profondità del modello gestionale ed economico, poiché esclusivamente finalizzati agli scontri tra astronavi. Ma se questi poi deludono totalmente come qui avviene si fa una fatica estrema a dare un giudizio sommario che sia sufficiente, poiché la semplicità dell'impianto diventa allora nient'altro che ineluttabile carenza. Lo è la pressoché totale mancanza di caratterizzazione delle fazioni, con l'aggravante dell'unica classe di navi uguale per tutti tranne meri orpelli estetici; lo è la mancanza di impostazioni nelle condizioni di vittoria; lo è la grandezza delle mappe risibile anche in modalità epica e l'impossibilità di costituire più di una flotta; lo è il fatto che per annientare un impero anche dieci volte più grande del proprio basta conquistare il suo sistema natale e tutto il resto... puf, Passa in mano nostra.
    Si salva la diplomazia? Sarebbe una notizia. Ma non si va oltre all'inutile chiacchiericcio per stabilire se ci si continuerà a ignorare o inizierà il vicendevole sterminio. Detto che grafica e sonoro fanno il loro senza acuti vorrei davvero poter aggiungere qualcosa di positivo, ma purtroppo non è questo il caso.

domenica 15 marzo 2015

Mortal Kombat X

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Picchiaduro

  • Sviluppatore:NetherRealm Studios

  • Data uscita:14 aprile 2015

     

     

    Parliamoci chiaro: Mortal Kombat è un marchio che deve una significativa parte del suo successo alla violenza inaudita. Come le scene più epiche dei film splatter, le fatality di Mortal Kombat sono ricordate con un sorriso sulle labbra da molti giocatori per la loro assurdità, capace di rivaleggiare con le peggiori sequenze di Final Destination o dei vecchi film di Peter Jackson. Il fatto è che, quando la serie ha abbandonato le sale giochi per entrare nelle case dei possessori di una console, si è presentato il problema di costruire attorno al gioco una trama. Un problema che, forse, era più un chiodo fisso degli sviluppatori che dei giocatori, che forse avrebbero preferito fare a meno di alcune trame cucite su questo franchise (e questo include la trama della trasposizione cinematografica, vero e proprio blockbuster trash degli anni Novanta).
    Con il reboot di Mortal Kombat del 2011 ad opera dei NetherRealm Studios, gli sceneggiatori decisero di utilizzare la trama in maniera pretestuosa per costruire un grosso recap di tutta la parte narrativa dei vent’anni precedenti e, indovinate un po’, la trama faceva abbastanza schifo. Perché nel momento in cui si cerca di dare una motivazione alla violenza con drammaticità (o presunta tale) si finisce inevitabilmente per prendersi troppo sul serio, realizzando qualcosa che sembra dimenticarsi dello spirito un po’ cazzaro di questo gioco, sul quale si spendevano le monetine per farsi due risate, non di certo per salvare l’umanità dalle forze del male.
    Così, alla GDC di San Francisco il nostro hype era sotto i tacchi quando ci dissero che la prova sarebbe stata dedicata alla modalità storia. Ci aspettavamo il solito polpettone da picchiaduro, privo di anima e incapace di suscitare qualunque emozione. Ma, fortunatamente, negli uffici dei NetherRealm qualcuno deve avere alzato la mano ed affermato: “Hey, fanculo la serietà: facciamo una cosa così trash e tamarra da rendere evidente l’intento faceto”. E, diamine, ci sono riusciti.
    Tenetevi forte, perché la trama di Mortal Kombat X è qualcosa di epico. Dopo la sconfitta di Shao Kahn, il mondo cade in una nuova guerra: anziché seguire le regole del Mortal Kombat imposta dagli Dei Antichi, Shinnok decide di muovere guerra contro Raiden e il suo clan. Durante la battaglia molti degli eroi storici del Mortal Kombat cadono, e vengono resuscitati sotto forma di zombie per combattere dalla parte di Shinnok contro i superstiti, il tutto sotto la guida di Quan Chi.
    Insomma: in Mortal Kombat X abbiamo a che fare con una serie di storici combattenti (che includono Jax, Sub Zero, Stryker, Smoke) trasformati in zombie e alla mercé dell’ex Dio Antico, Shinnok. L’assurdità della trama ben si sposa con la lunga sequenza iniziale, nella quale ci troviamo su di un campo di battaglia dove dei soldati stanno fronteggiando una serie di demoni alati, che ovviamente hanno la meglio e strappano a unghiate le teste (con tanto di caschetto) dei militari. La sequenza si sposta quindi nel cielo, a bordo di un elicottero da assalto con Johnny Cage, Sonya e Kenshi, accompagnati da un pilota e qualche soldato. Dopo una orribile battuta sulla cecità di Kenshi che sembra essere uscita da una meme con protagonista Andrea Bocelli, il pilota viene colpito in testa da un “misterioso sperone” e l’elicottero inizia a precipitare. Quando gli occupanti sembrano avere ripreso il controllo del velivolo, ecco teletrasportarsi a bordo Scorpion, che uccide tutti i soldati, fa cadere Kenshi in strada e inizia una sanguinosa battaglia con Johnny Cage, nella quale il giocatore è chiamato a compiere alcuni semplici QTE che si concludono con l’immancabile sequenza in cui i due contendenti si dondolano in bilico sul pattino dell’elicottero, continuando a menarsi fino a che Scorpion non cede. L’elicottero precipita, e la nostra battaglia continua per le vie della città, questa volta in un vero scontro che termina con la fuga del nostro contendente e il salvataggio di Sonya dal relitto dell’elicottero in fiamme.
    Avrete immediatamente capito che la premessa del gioco ben si presta a incarnare l’anima di questo gioco, senza mortificare i fan con una trama troppo seria e presentandoci un miscuglio di azione, battute trash e - ovviamente - nemici zombie che ci ha fatto ridere a crepapelle. Probabilmente l’aspetto narrativo del gioco dividerà il pubblico in due: una certa fetta di appassionati troverà la trama di Mortal Kombat X stucchevole e poco ispirata, mentre un’altra metà si divertirà nel constatare come il gioco stia cercando di compiere un’operazione simile a quella fatta da Sam Raimi con la serie La Casa, dove la violenza e l’apparente drammaticità delle azioni scaturisce in una comica assurdità. Probabilmente, bisognerà essere dell’umore giusto per godersi appieno gli aspetti narrativi di Mortal Kombat X, ma nella breve prova a nostra disposizione siamo abbastanza convinti che noi rientreremo nella metà dei giocatori felici di questa svolta tamarra, rumorosa e kitsch.
    Oltre a un divertente primo excursus sulla modalità storia del gioco, abbiamo potuto apprezzare anche alcune novità presentate nel corso della GDC. Non abbiamo da segnalare novità dal lato del gameplay, avendone parlato ampiamente nelle precedenti preview. Si nota una leggera limitazione nell’uso dello scenario a proprio favore, che è limitato da una barra di energia che si consuma ad ogni utilizzo degli elementi scenici per infliggere danni all’avversario.
    Le novità di Mortal Kombat X, infatti, sono da individuarsi principalmente nell’arrivo di alcune nuove modalità. Anzitutto, anche in vista dell’arrivo della versione mobile del gioco (di cui ci occuperemo in altre sedi), è stato pensato di creare una sorta di modalità online in continua evoluzione chiamata Faction, in cui ogni giocatore sceglie una fra cinque fazioni - Black Dragon, Brother of Shadow, Lin Kuei, Special Forces e White Lotus - e combatte in una rete cross-platform per aumentare il punteggio della propria squadra. Qualunque azione compiuta nel gioco, dagli scontri online fino al single player, contribuisce ad aumentare il punteggio e dunque il prestigio della propria fazione.
    Infine, è stata presentata la modalità Living Towers, diretta evoluzione delle vecchie e amate Challenge Towers ma qui rese dinamiche dalla presenza della rete. In breve, ogni torre presenterà diverse sfide, cambiate di continuo (anche due volte al giorno nelle cosiddette Quick Tower) dal team di sviluppo. In questo modo, Mortal Kombat X dovrebbe offrire sfide costantemente aggiornate (e uguali fra tutti i giocatori) prolungando di molto la vita del prodotto. Un aspetto che, francamente, accogliamo con felicità.
    Infine, non va trascurato l’aspetto tecnico. Mortal Kombat X è un gioco che, da un punto di vista grafico, ci lascia certamente un’ottima impressione. Le animazioni sono più fluide e in numero maggiore, e in generale il gioco dà un senso di velocità aumentato rispetto al suo predecessore. Le mosse X-Ray danno un’incredibile soddisfazione (e ci fanno digrignare i denti di fronte a qualche osso spezzato con veemenza) e le fatality, ancora una volta, fanno davvero sghignazzare. “Come potete notare, abbiamo deciso di ridurre la violenza delle fatality” ha scherzato un producer dei NetherRealm, dopo averci mostrato un povero combattente al quale era appena stato estratto l’intestino attraverso la bocca. Non ci resta che sperare in una localizzazione all’altezza: Warner, se non hai i soldi per il doppiaggio, sappi che ci possiamo accontentare dei sottotitoli. Ma Cage doppiato dal sosia vocale di Alberto Tomba risparmiacelo questa volta, grazie.

mercoledì 11 marzo 2015

Hot Line

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Azione

  • Sviluppatore:Dennaton Games

  • Data uscita:10 marzo 2015

     

     

    Miami, 1989. L’assassino dei mafiosi russi, Jacket, è stato catturato e messo a processo. La sua vicenda ha avuto una risonanza di portata nazionale, e c’è persino chi sta girando uno snuff-movie basato sul suo personaggio. Ma, a quanto pare, un gruppo di cinque persone ritiene giusta la causa di Jacket, idolatrandolo ed emulandone le gesta. Al contempo, il caso di Jacket è ancora aperto e un coraggioso giornalista è disposto a spingersi fino oltre i propri limiti morali e deontologici per scoprire la verità.
    Dopo il grande successo di Hotline Miami, eccoci di nuovo alle prese con questa bizzarra e violentissima serie che, questa volta, ha deciso di abbracciare una narrazione più solida e stratificata, offrendo al giocatore un’esperienza inaspettatamente profonda. Dopo il viaggio allucinogeno e allucinofilo del primo episodio, infatti, Hotline Miami 2: Wrong Number fa un passo indietro, riprendendo la storia laddove era rimasta ma con un tono a tratti più cupo, con dialoghi più lunghi e un maggiore approfondimento degli eventi attorno a noi. L’atmosfera mescalina del gioco originale è ripresa solo in alcune scene, e vi è un continuo passaggio di testimone fra un elevato numero di personaggi, che permette al giocatore di continuare a rimbalzare tra un luogo e l’altro, spinto da motivazioni diverse e con sottotrame spesso appassionanti. L’intero gioco, suddiviso in sequenze, sembra richiamare la struttura di un film corale e gli intermezzi tra una sparatoria e l’altra abbandonano i discorsi sulla pizza di matrice tarantiniana del primo gioco per abbracciare momenti in cui il racconto procede rapidamente, senza tuttavia disdegnare l’assurdità e il mistero di alcune situazioni, che spesso varcano la soglia di un'allucinazione di abuso da cocaina. E, casomai ve lo steste chiedendo, in Hotline Miami 2 si ripropone la stessa violenza in stile 16 bit che ha caratterizzato il successo indie del 2012.
    Gli sviluppatori di Hotline Miami 2: Wrong Number hanno scelto di mantenere il gameplay sostanzialmente identico a quello del primo capitolo. Ancora una volta ritroviamo la stessa struttura di gioco, nella quale si alternano sequenze narrative con poche cose da fare a vere e proprie esplosioni d’azione, in cui basta un solo colpo per morire e dobbiamo fronteggiare edifici pieni zeppi di nemici. Raccogliere le armi sul campo è necessario per la sopravvivenza del nostro personaggio, così come è obbligatorio avere pazienza per poter procedere nel gioco. L’aggressività dei nemici è elevatissima, e solo la loro scarsa intelligenza artificiale ci salva da un massacro certo. Tra nemici che si muovono in maniera randomica a nemici che seguono un percorso predeterminato, tra cattivi dotati di un’arma randomizzata a nemici con in pugno sempre lo stesso tipo di pistola, il giocatore si muove in ogni livello come in un piccolo labirinto, studiando con attenzione l’ambiente e trovando il modo più furbo per giungere vivi e vegeti al completamento della zona.
    A variare l’esperienza, come nel primo episodio, vi sono le maschere che aggiungono un potere al personaggio che le indossa. Alcune di esse fanno ritorno e presentano abilità analoghe a quelle viste nel 2012, mentre vi sono delle nuove aggiunte che abbiamo accolto a braccia aperte. Meritevole di menzione la maschera da cigno, che ci pone al controllo di una coppia di fratelli dotati di pistola e motosega, che velocizza il gameplay obbligando al corpo a corpo e a sequenze di una brutalità semplicemente inaudita.
    Al contempo, siamo rimasti colpiti da alcuni dei personaggi presenti nel gioco. Al di là dei cinque antieroi emuli di Jacket, infatti, nel gioco vestiamo i panni di diversi strani uomini che, in molti casi, non indossano alcuna maschera. Il detective Manny Pardo, ad esempio, non ha nemmeno la capacità di uccidere i nemici, limitandosi a stordirli e a scaricare le loro armi e costringendoci a un approccio al gioco completamente diverso e forzato dalla presenza di livelli legati a un singolo personaggio. Si nota una certa maturità da parte degli sviluppatori che, senza mai stravolgere la formula, hanno apportato tante piccole modifiche che rendono l’esperienza lievemente più varia che in passato, con protagonisti che riescono ad avere una personalità che emerge tra gli ettolitri di sangue versati.
    Hotline Miami, con la sua difficoltà elevata che mette a dura prova i nostri nervi, scorre in maniera piuttosto rapida e non stanca. Al di là della storia sopra le righe e di una crudezza di alcune sequenze che vanno a toccare ciò che spesso viene considerato tabù nel mondo dei videogiochi, è necessario spendere due parole sulla colonna sonora di questo titolo. Hotline Miami 2: Wrong Number ha musiche straordinarie, toni trance e techno che martellano il cervello e scandiscono il ritmo forsennato del gioco. È un vero peccato che gli sviluppatori abbiano scelto di non includere la colonna sonora nel pacchetto, limitandosi ad appena cinque tracce inserite nell’edizione speciale del gioco. E la colonna sonora in vinile, disponibile nell’edizione da collezione, costa davvero uno sproposito tra costi di spedizione e dazi doganali.
    Da un punto di vista tecnico, ci troviamo allineati con il capitolo precedente. Questa volta è stato posto un maggiore dettaglio nella struttura dei livelli, spesso più grandi, dotati di piani multipli e di stanze arredate in maniera originale con ogni genere di oggetto strano. Da segnalare anche la presenza di numerosi segreti, spesso ben celati in alcuni luoghi apparentemente sterili. A causa della maggiore dimensione delle mappe, infine, va segnalato un migliorato sistema di lock-on dei nemici, che blocca automaticamente il cursore della mira sul nemico più vicino, anche se egli si trova fuori dal nostro campo visivo. Il sistema semplifica la vita in alcuni saloni particolarmente grandi, ma tende a renderci più complicate le cose quando ci troviamo in presenza di un grande numero di nemici, in quanto il bersaglio selezionato dall’intelligenza artificiale potrebbe non coincidere con quello che noi avevamo in mente. Un’inezia che, in ogni caso, non compromette l’esperienza di gioco.

lunedì 9 marzo 2015

White Night

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Survival horror

  • Sviluppatore:OSome Studio

  • Data uscita:3 marzo 2015 (PC) - 4 marzo 2015 (PS4) - 6 marzo 2015 (Xbox One)

     

     

    Se un colosso come Activision ha deciso di pubblicare l’opera prima di uno studio indipendente – ho pensato – non dev’essere stato per un capriccio. Deve avere avuto la certezza che White Night fosse un’opera di caratura ben più elevata rispetto a quelle sperimentali e spesso senz’anima che si affacciano di continuo sul mercato. 
    Un survival horror di stampo classico, in bianco e nero, rappresenta già un azzardo non da poco, ma i ragazzi di OSome Studio dichiarano di essere fortemente ispirati da una visione aperta e matura del videogioco, nutrita da un’evidente cultura letteraria, cinematografica e teatrale. E in White Night, per tutto l’arco dell’avventura, tutto ciò si avverte palesemente, con una chiarezza di intenti a cui difficilmente abbiamo avuto l’onore di assistere negli ultimi anni.
    Siamo nella Boston del primo dopoguerra, in quel periodo che abbraccia il Proibizionismo, la crisi del ’29 e le prime manovre del New Deal varate da Roosevelt. Sono gli anni delle grandi star del jazz, gli anni ruggenti del grande sviluppo e quelli successivi del tracollo economico. White Night dipinge questo spaccato di storia con pennellate precise, decise e a suo modo autorevoli, creando la scenografia ideale lungo cui si muovono i suoi personaggi ambigui, dissoluti, soli e disperati. La scrittura dei testi (così come l’encomiabile localizzazione in italiano) è di un livello superiore, pari a quella di un racconto di inizio ‘900: articolata, ricca di suggestioni, citazioni coltissime e carica di un potere immaginifico che ha il potere di calare l’utente all’interno di una storia dai tratti foschi, cupi e dal chiaro respiro hitchcockiano. Trattandosi di un survival horror story-driven, non avrebbe potuto essere altrimenti, ma laddove in molti falliscono nel costruire pilastri portanti come l’atmosfera ideale e uno sfondo credibile, White Night riesce a fare qualcosa di davvero eccezionale, ponendosi sul gradino dove sostano silenziosamente le migliori opere d’autore. Ma attenzione a cantare vittoria sin dall’inizio, perché la creazione di OSome è sì una gemma, ma presenta qualche imperfezione sulle sfaccettature più in vista.
    Dopo un incidente d’auto, il protagonista si introduce all’interno di una magione alla ricerca di aiuto. Il terreno adiacente ospita il cimitero di famiglia; all’entrata, qualcosa sembra tremendamente fuori posto, e attraverso le stanze l’unico suono che si ode è il silenzio surreale dei luoghi proibiti. Tutto è in bianco e nero, un continuo chiaroscuro che non è solo frutto di un’estetica inusuale o di una ricerca artistica sui generis, ma soprattutto un modo per rappresentare simbolicamente la dicotomia tra lusso e povertà, bene e male, sanità e follia. E non solo. È il sistema di gioco stesso a impregnarsi dei colori del buio e della luce, perché in White Night non si può avanzare senza accendere continuamente dei fiammiferi che illuminano le zone d’ombra, né senza premere gli interruttori delle lampade. Nel buio si muovono dei terribili fantasmi che uccidono all’istante, che non possono essere combattuti; ma che possono solo essere evitati con la fuga o dissolti con la luce. Non ci sono altri nemici, e il motivo diventa chiaro leggendo gli splendidi (e numerosi) testi che troverete sparsi per l’enorme villa. Vi troverete così invischiati in una storia turpe, fatta di violenze inenarrabili, omicidi, oscenità della mente, riti alchemici e tribali; e non riuscirete a scoprire la verità fino a quando non avrete scavato a lungo e raschiato il fondo. 
    La conduzione di gioco si rifà ai classici survival horror di un tempo come il primo Resident Evil o Alone in the Dark, con ritmi compassati e una spiccata propensione per l’esplorazione degli ambienti, che qui costringe il giocatore a essere paziente e incredibilmente meticoloso. Sebbene appaiano sempre delle icone contestuali nel momento in cui ci si avvicina agli oggetti di maggior interesse, bisogna ammettere che lo stile grafico è talvolta d’impaccio, perché rende un po’ impastata l’immagine e di conseguenza più complicata l’identificazione dello scenario. La situazione si complica ulteriormente quando le inquadrature – rigorosamente fisse – mostrano il protagonista in lontananza. E diventa insopportabile quando a tutto ciò si somma un' IA nemica e un posizionamento dei fantasmi davvero poco indulgenti, specialmente a partire dal quarto capitolo.
    Le fasi finali si tramutano spesso in sezioni da percorrere effettuando precise gimkane, con la speranza di non sbattere contro i fantasmi e dover così ricominciare tutto dall’ultimo checkpoint. Checkpoint, per l’appunto, attivabili sedendosi su alcune poltrone da cui è possibile salvare i progressi di gioco. Il consiglio è di farlo continuamente, tutte le volte che se ne ha la possibilità, perché morire in White Night è semplicissimo, così come adirarsi e farsi prendere un po’ dalla frustrazione. Va però ben specificato che se è vero che in alcuni punti la densità dei nemici e il loro raggio d’azione sono mal calcolati, è vero anche che spesso i game over sono dovuti all’eccessiva fretta del giocatore, ormai disabituato ai ritmi degli horror degli anni ’90. Quando bisognerà spostarsi rapidamente, le animazioni e gli improvvisi cambi di prospettiva non giocheranno a vostro favore, ma se entrerete nel mood di gioco, vi renderete conto che White Night è un titolo che è stato studiato per essere goduto in gran tranquillità, senza mai cedere il passo alla fretta. Non vi sentirete realmente minacciati o in pericolo, e non avvertirete nemmeno quell’ansia tipica che sa trasmettere il genere; sarete piuttosto invasi dalla tensione nervosa e da quel senso di scoperta che solo i thriller più avvincenti sanno stimolare. White Night è scritto divinamente. Ha un senso del ritmo perfetto, una cura per i particolari d’altri tempi, un modo di raccontarsi efficace, diretto e in linea col periodo storico in cui è ambientato. Non si fa problemi a essere crudo quando deve, e non è mai gratuito o fuori luogo: semplicemente, sa come gestirsi, come tirarvi dentro, come invischiarvi e non lasciarvi più. Qualcuno potrebbe lamentarsi del fatto che un titolo story-driven ha in un certo senso il dovere di lasciarsi giocare più agevolmente, ma sudare per arrivare all’obiettivo e apprendere per gradi i particolari di una storia simile, così dolce e agghiacciante, ha tutto un altro gusto. Pure gli enigmi sono molto buoni e decisamente sopra la media, sia per originalità che per difficoltà. Anch’essi si piegano in favore della storia, soprattutto nel finale, quando si mescolano inaspettate rivelazioni e un gusto per la suspense davvero raffinato.

giovedì 5 marzo 2015

Wolfenstein The Old Blood

  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Sparatutto

  • Sviluppatore:MachineGames

  • Data uscita:5 maggio 2015

     

     

    Vincitore dell'onorificenza di miglior sparatutto del 2014 nei nostri awards, Wolfenstein: The New Order ha saputo sorprenderci con un gameplay vecchio stampo accompagnato tuttavia da una storyline longeva e dalla qualità indubbiamente sopra la media rispetto agli FPS più recenti. Le gesta di B.J. Blazkovic ci hanno esaltato grazie a un sapiente design delle missioni e ad una varietà di ambientazioni e di situazioni davvero lodevoli, con la mancanza dell'ormai imprescindibile multiplayer che non si era fatta minimamente sentire viste le molteplici ore di gioco che il titolo offriva. Il maggio del 2014, insomma, ci ha regalato uno shooter fenomenale e in molti si sarebbero aspettati numerosi DLC a supportarne il successo, visto anche qualche domanda lasciata senza risposta della campagna principale. Solo oggi invece arriva l'annuncio che non ti aspetti: il primo di questi contenuti extra, visto il lasso di tempo passato dal titolo principale, arriva solo sotto forma di contenuto stand alone e si piazzerà cronologicamente prima degli eventi narrati in Wolfenstein: The New Order raccontandoci alcuni retroscena, sulla carta, davvero interessanti.
    Wolfenstein: The Old Blood, questo il nome del progetto, ci riporta indietro nel 1946, in una realtà alternativa dominata da un esercito tedesco armato con le migliori tecnologie fantascientifiche e fortemente alienato da sperimentazioni e test sul sovrannaturale.
    In una guerra senza esclusione di colpi, Blazkowicz si troverà così a dover rimettere mano al fucile per avventurarsi in una missione in Baviera divisa in due tronconi principali. Una campagna quindi che da una parte vedrà B.J. fare ritorno al vecchio castello Wolfenstein alla ricerca di indizi che possano stanare il generale Deathshead, mentre dall'altra lo metterà sulle tracce di un archeologo nazista nei pressi della città di Wulfburg. Le due storyline saranno destinate a intrecciarsi e siamo sicuri che, come nel titolo originale, scene crude e spettacolari ci attenderanno dietro ogni angolo.
    D'altra parte uno dei punti di forza di The New Order era proprio quello di saper raccontare la guerra in maniera cruda e brutale, con immagini che ancora oggi ci sono rimaste impresse nella memoria. Come dimenticare l'asportazione mandibolare di quella carogna della Frau Engel o la tortura con tanto di sega elettrica di un comandante nazista? Bene, speriamo che tutto questo ritorni in grande stile e, visto che il progetto è ancora nelle mani di Machine Games, ma soprattutto in quelle di Jerk Gustaffson, non fatichiamo a credere che le cose andranno esattamente per il verso giusto.
    Purtroppo l'annuncio di oggi non ha rivelato poi molto e per capirne qualcosa di più dovremo attendere ancora qualche giorno, quando al PAX East, Bethesda alzerà il velo sul gioco con un stream dedicato completamente al gioco.
    Difficilmente le ambientazioni saranno aperte come speriamo ma molto più probabilmente seguiranno ancora quei lunghissimi corridoi atti a sviluppare un maggior impatto cinematografico, pronto a sottolineare l'esageratezza della produzione.
    Di sicuro è la varietà quella che non dovrebbe deludere perché oltre al nostro amato castello, si è già accennato a ambientazioni cittadine diversificare, catacombe e anche a vallate ricche di ponti e funivie che dovrebbero essere in grado di regalare paesaggi mozzafiato.
    Torneranno anche in questo prequel tutte quelle meccaniche alternative che avevamo visto in Wolfenstein: The New Order. Non è confermato se dovremo ancora gestire armi laser per tagliare le recinzioni e intrufolarci nella varie condutture come in passato ma Machine Games ha già annunciato la presenza di tubature sparse sulle pareti degli edifici sulle quali arrampicarsi che dovrebbero quantomeno garantire un approccio diverso rispetto alla solita carica a testa bassa contro i nemici della serie. Ad acuire questa sensazione è il nuovo sistema di talenti, o meglio il vecchio sistema rinnovato, che ora ospiterà nuove abilità completamente dedicate allo stealth oltre che ovviamente a nuove skill per creare ancora più caos a schermo. Quello che ci aspetta è dunque una medaglia dalle due facce che dovrebbe consentire di poter alternare liberamente un approccio silenzioso a uno con le armi spianate, magari imbracciandone due alla volta proprio come la serie da sempre vuole. Ecco, proprio in questo ambito non mancano anche nuove bocche da fuoco indirizzate verso esplosioni e smembramenti, come ad esempio il fucile a pompa 1946 o la Kampfpistole lanciagranate. Restiamo curiosi di vedere nei prossimi giorni il funzionamento e le meccaniche legate invece al fucile bolt-action e anche alla validità dei nuovissimi nemici aggiunti per l'occasione.
    Ricordiamoci infatti che uno dei problemi più grossi di Wolfenstein era da ricercarsi proprio nella non particolarmente esaltante intelligenza artificiale dei nemici, fattore che speriamo Machine Games abbia sistemato per questo prequel. 

Hand of Fate


  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Gioco di ruolo

  • Sviluppatore:Defiant Development




Non credo molto in Kickstarter, nei giochi early access o in tutte quelle forme di finanziamento spontaneo da parte dell'utenza basate unicamente su qualche artwork ben progettato e magari un nome storico a fare da cassa di risonanza. Certo, ci sono molteplici casi di titoli arrivati sul mercato che hanno saputo soddisfare i backers, ma in linea generale sono più le volte che ho letto di promesse non mantenute rispetto ai sogni poi effettivamente realizzati. Ci siamo avvicinati a Hand of Fate quindi con la classica titubanza di chi in queste produzioni ancora fatica a credere, ma una volta aperto il pacchetto abbiamo trovato una vera e propria miniera d'oro.

La produzione indipendente di Defiant Development potrebbe tranquillamente trarre in inganno i meno attenti, perché tra nome e immagini di copertina Hand of Fate, al primo impatto, pare l'ennesimo gioco di carte senza particolarità. Il titolo invece è un gioco CON le carte, una differenza abissale, che nasconde al suo interno idee innovative per un genere ormai davvero carente da questo punto di vista da troppo tempo.
Partiamo quindi dal primo impatto con il gioco e da quell'atmosfera oscura e tenebrosa che accompagnerà ogni nostra singola partita. In realtà il gioco in sé non fa nulla per risultare più cupo del dovuto ma il setting, con un semplice tavolino coperto da un telo rosso e un cartomante seduto di fronte a noi, riesce a rapire completamente il giocatore. La voce narrante e il sonoro ovattato fanno il resto, facendoci sentire soli e sperduti mentre ci apprestiamo a leggere il nostro destino nelle carte.
Hand of Fate propone due modalità di gioco, una campagna composta da dodici livelli di difficoltà crescente e una modalità infinita, che ben presto si rivela essere cuore e linfa della produzione.
Ci si accomoda quindi su uno sgabellino e il misterioso personaggio seduto davanti a noi inizia a incantarci con movimenti lesti dei mazzi di carte presenti sul tavolo. Ognuno di essi è composto da immagini e numeri inizialmente indecifrabili e la magia si completa quando, proprio sotto ai nostri occhi, le carte andranno a posizionarsi coperte in modo completamente casuale sulla stoffa rossa.
Ancora un incantesimo e dal nulla spunta una pedina di legno, posizionata proprio sulla prima carta e pronta a rappresentarci, che si muoverà solo al nostro comando.
Ecco allora che il giocatore può spostare il segnalino su una delle carte adiacenti e rivelarne il contenuto, da qui in poi la fortuna, l'abilità e l'astuzia completeranno il tutto.
 

Il gioco a questo punto prende forma e a ogni passo viene generato un evento casuale. La nostra pedina potrà ad esempio incappare in astuti goblin decisi a fare qualche scambio vantaggioso, in paesani con estremo bisogno di aiuto o predoni e nemici desiderosi solo di ottenere la nostra morte. È una calda e profonda voce narrante quella che ci racconta le ambientazioni e ci fa immedesimare nella scena, il tutto ricorda terribilmente i libri game che eravamo soliti leggere negli anni '90. Ogni nostro singolo passo consumerà una razione di cibo, una valuta estremamente importante nel mondo di gioco visto che, una volta terminata, ad ogni movimento successivo saranno direttamente i nostri punti ferita a venir intaccati. A questo punto il giocatore tenterà a tutti i costi di muoversi rapidamente sul tabellone per raggiungere il più velocemente possibile l'uscita, spinto però al contempo a esplorare approfonditamente ogni livello nella speranza di trovare carte che possano venire in nostro soccorso o addirittura regalarci qualche equipaggiamento bonus.
Hand of Fate non è infatti un semplice gioco testuale, ma alcuni eventi ci trasporteranno nel regno incantato dove la nostra avventura ha luogo, un posto inospitale dove non morti, uomini lucertola, draghi e altri mostri presi di peso dalla cultura fantasy tenteranno di metterci i bastoni fra le ruote. In questi frangenti il gameplay muta profondamente e da semplice gioco da tavolo Hand of Fate si trasforma in un hack 'n' slash spinto verso l'azione più pura, con il nostro alter ego pronto a lanciare incantesimi o a menar fendenti a tutto spiano.
Il gameplay ricorda molto da vicino il free flow system della serie Arkham, anche se purtroppo non viene riproposto con la medesima qualità. Le animazioni sono piuttosto legnose e le hit box dei nemici non particolarmente precise, rendendo gli scontri più caotici e casuali del dovuto. La parte del combattimento pertanto non brilla come gli altri elementi di gioco, ma risulta comunque una trovata interessante e indubbiamente varia per tenere alto l'interesse dei giocatori. Completando poi i vari eventi potremo entrare in possesso anche di equipaggiamenti per potenziare il nostro eroe: dalle classiche lame, passando da corazze e elmi fino ad arrivare a incantesimi e scudi, questi ultimi poi con applicazioni sul combat system dato che ci permetteranno attraverso semplici QTE di deviare gli attacchi o di respingere al mittente i proiettili.
I dodici livelli della campagna si distinguono per i combattimenti finali contro boss decisamente più coriacei delle truppe normali, ma è nella modalità infinita che il gioco riesce poi a dare il meglio di sé. Nella campagna sarà infatti possibile costruire preventivamente un mazzo di equipaggiamenti e di eventi con il quale affrontare la missione ma nella modalità endless tutte le carte, comprese alcune completamente inedite, verranno buttate in un unico e infinito mazzo in possesso del cartomante, dal quale verranno continuamente creati livelli ed estratte nuove prove di difficoltà crescente. Ogni carta superata sul tabellone incrementerà infine il nostro punteggio e scalando livelli su livelli potremo tentare di agguantare i primi posti nelle classifiche mondiali, un mero orpello visto che il grosso dell'appeal viene comunque regalato dal gioco e dal suo gameplay.
 

Se l'atmosfera è azzeccatissima, qualcosa di più si poteva fare dal punto di vista tecnico. I modelli poligonali dei personaggi sono piuttosto poveri anche se le ottime texture di eroi e mostri riescono a coprire egregiamente i difetti. Manca purtroppo la personalizzazione estetica del nostro alter ego, mentre apprezziamo in maniera assoluta la buona varietà estetica per quanto concerne armi ed equipaggiamenti, con centinaia di oggetti da trovare e raccogliere. La ripetitività delle meccaniche inizia a farsi sentire solo dopo decine di ore di gioco proprio grazie alla sensazione continua di crescita del proprio personaggio e alla volontà di arrivare sempre il più lontano possibile, spingendo il giocatore a ricominciare dall'inizio continuamente per superare i suoi record precedenti, a costo di passare tra eventi visti già altre centinaia di volte e dall'esito scontato. Fortunatamente la dea bendata e la casualità favoriscono la rigiocabilità del prodotto che, nonostante le semplici meccaniche, è in grado di divertire virtualmente per sempre gli amanti dei giochi da tavolo di una volta, sorprendendoli ad ogni nuova partita.