Ethero

giovedì 28 gennaio 2016

Far Cry Primal


  • Piattaforme:PC, PS4, Xbox One

  • Genere:Sparatutto

  • Sviluppatore:Ubisoft

  • Data uscita:23 febbraio 2016 - Marzo 2016 (PC)

     

     

    Se dovessimo descrivere la piega che far cry ha preso in questi anni con una sola parola potremmo dire tranquillamente che il termine più adatto sia Follia. Se Far Cry 3 e 4 ci hanno lasciato qualcosa, infatti, è dovuto soprattutto a due antagonisti carismatici, a due pazzi scatenati che hanno reso le nostre scorribande sull'Himalaya e a Rook Island un vero e proprio inferno. La nostra paura più grande con Far Cry Primal era proprio quella di non trovare nulla che potesse stimolarci allo stesso modo ma , con somma gioia, dopo questa nuova prova, possiamo finalmente toglierci anche questo peso: la nuova produzione Ubisoft pullula di gente completamente fuori di testa.
    Non parliamo solo degli ovvi antagonisti, feroci e spietati, ma anche i nostri alleati e compagni di caccia sembrano provenire da un manicomio e non fanno nulla per nascondere la loro natura primitiva e selvaggia.
    Nel percorso che porterà Takkar a crescere da semplice cacciatore a leader della tribù dei Wenja verremo affiancati da sciamani che leggono il futuro nel sangue e da una giovane donna che fa incetta e collezione delle orecchie degli odiati Udam, tribù avversaria che dovremo scacciare dalla valle.
    Neanche a farlo apposta, ovviamente, il leader degli Udam è un energumeno feroce e spietato, una bestia selvaggia decisa a sterminare chiunque si opponga al suo volere e con il quale, ci scommettiamo, metteremo in campo duelli violentissimi e brutali.
    L'intera avventura, già da questi primi assaggi, ci è sembrata molto più cruda rispetto alle precedenti iterazioni, rispecchiando quella che doveva essere la vita selvaggia nell'età della pietra.
    Abbiamo scoperto anche che la storia non sarà un semplice binomio tra queste due tribù ma che nell'equazione verranno inserite altre popolazioni, sempre borderline come storia e filosofia di vita.
    Gli Izila, guidati da una violenta Regina adorano e usano principalmente il fuoco come arma, bruciando tutto ciò che trovano sul loro cammino. Saremo quindi letteralmente tra due fuochi e riuscire a riportare la terra di Oros alla pace non sarà certamente un compito facile, almeno sulla carta.
    Videoludicamente parlando, la difficoltà sembra essere tarata come sempre verso il basso, con la chiara intenzione di lasciare che il giocatore si perda nell'esplorazione e nella ricerca di bestie rare da uccidere e addomesticare, senza l'ansia di venir assalito ogni due secondi ed essere ucciso.
    L'enorme ghiacciaio che fa da location questa volta, ambientazione che vi ricordiamo essere ispirata all'Europa del mesolitico, porta in dote una buona varietà di panorami, a volte anche in modo innaturale. L'ambientazione sembra infatti essere leggermente forzata proprio per proporre più situazioni possibili, scelta scomoda ma necessaria per rompere qualsiasi monotonia. Ecco allora che dalle verdi foreste si passa ad aree completamente desertiche sotto un sole cocente, fino ad arrivare a zone innevate dove la sopravvivenza sarà messa a durissima prova.

    Takkar dovrà quindi preoccuparsi di andare a caccia per raccogliere pelli e perfezionare il suo equipaggiamento, conquistare i vari avamposti per poter sfruttare i trasporti rapidi e più in generale collezionare materie prime così da ricostruire il villaggio dei Wenja. Aggiungendo capanne e potenziando quelle esistenti potremo poi sbloccare missioni secondarie aggiuntive e far progredire la trama, con un sistema già ben noto ai fan di Far Cry.
    Le novità più rilevanti arrivano quindi dal punto di vista del gameplay, il quale, pur non discostandosi dalla serie, prova a proporre qualcosa di nuovo rimuovendo completamente le bocche da fuoco. Sarete costretti a giocare forzatamente con arco e frecce per colpire dalla distanza ma potrete far affidamento anche ad armi bianche e bombe velenose nei combattimenti ravvicinati. Avere a disposizione un arsenale ridotto ha portato gli sviluppatori a inserire altri modi per pianificare le strategie di attacco ed è proprio qui che entrano in campo le bestie e, soprattutto il nostro gufo. Una sorta di legame spirituale ci unisce ad un enorme gufo, che potremo richiamare in qualsiasi momento e spedire in avanscoperta. Vedremo con i suoi occhi e potremo ordinargli di attaccare in picchiata i bersagli o più semplicemente di evidenziarli, così da facilitarci le missioni stealth. Il gufo non è ovviamente l'unico animale che potremo richiamare ma addomesticando le varie belve in giro per il mondo potremo avere sempre il supporto di un compagno. Potremo lanciarlo in attacco e usarlo come distrazione o lasciarlo nascosto nell'erba alta per tendere agguanti, in modo non molto dissimile a dire il vero di quanto accadeva nei precedenti capitoli della serie con le bestie in gabbia, solo avendone ora un maggior controllo.
    Il gameplay sembra forse un po' troppo superficiale dopo questa prima prova ma aspettiamo di mettere le mani sul gioco completo per esprimerci in maniera più concreta. Diciamo questo perché dalla nostra precedente prova, sono stati fatti passi avanti anche dal punto di vista tecnico e abbiamo notato pregevoli effetti di luce e una realizzazione davvero eccellente di tutti i personaggi, così come un ciclo giorno notte particolarmente realistico. Restano tuttavia ancora diversi dubbi attorno al titolo. Essendo un gioco in prima persona il combattimento corpo a corpo non ci è sembrato poi così soddisfacente, soprattutto in termini di animazioni e sono lontani gli standard dettati da altri esponenti del genere come Dying Light ad esempio. Il secondo grosso punto di domanda riguarda invece il doppiaggio. Far Cry Primal infatti adotta una lingua “originale” composta da suoni gutturali e strilla per rifarsi ai metodi di comunicazione presunti del mesozoico e questo ha portato ubisoft a dover sottotitolare in modo completo l'avventura. Questa scelta, particolarmente coraggiosa dal punto di vista del design crea sicuramente un'atmosfera migliore e un maggior coinvolgimento ma obbliga il giocatore a leggere i sottotitoli durante le cut scene e le sessioni più concitate, facendogli perdere il gusto di guardare semplicemente lo schermo per godersi il buon comparto tecnico e facendogli perdere così tantissimi dettagli dell'avventura. Ancora una volta vedremo il risultato finale nel gioco completo, al momento abbiamo tanti lati positivi e qualche dubbio, a fine febbraio speriamo di togliere tutti questi punt
    i di domanda.

venerdì 22 gennaio 2016

Punch Club

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Manageriale

  • Sviluppatore:Lazy Bear

  • Data uscita:8 Gennaio 2016

     

     

    Le parole della colonna sonora di Rocky III - la celebre Eye of the Tiger dei Survivor - riecheggia nelle nostre menti mentre giochiamo a Punch Club. Questo titolo, nato e cresciuto in ambiente indie, è un manageriale 8 bit orientato al mondo del pugilato (o, più propriamente, delle arti marziali miste) i cui cenni alla cultura cinematografica, videoludica e televisiva degli anni ottanta si riflettono in ogni momento. Se avete amato quel periodo, state per imbattervi in qualcosa che amerete alla follia.
    Come nella celebre saga di film interpretata da Sylvester Stallone, in Punch Club seguiamo la storia di un ragazzo con una vita triste alle spalle, con del potenziale per diventare un campione ma fuori forma e troppo debole per riuscire ad emergere nel mondo del combattimento. L’incontro con un mentore durante un combattimento di strada, però, gli cambia la vita e lo porta sulla retta via per diventare un campione.
    Tutto questo, come detto, è infarcito di continui cenni al mondo della cultura popolare degli anni Ottanta: ritroviamo spezzoni di trama presi qua e la dai fumetti Marvel, troviamo citazioni più o meno esplicite di film sul pugilato, a serie televisive di ogni genere (Simpson inclusi) e qualche strano cameo. In effetti, tutta la parte legata alle citazioni e a rievocare ricordi nel giocatore un po’ più temprato è uno dei punti di forza di questo titolo che, tuttavia, si è rivelato anche un manageriale di buona qualità.
    La gestione del nostro eroe in Punch Club si basa sul mantenimento delle barre della vitalità, energia, umore e fame. Queste quattro risorse vengono spese e ricaricate dalle varie azioni compiute nel gioco, siano esse mangiare, dormire, allenarsi, lavorare. Il lavoro dà accesso ai soldi, i quali ci consentono di comprare cibo e di pagare la palestra. Gli allenamenti determinano la crescita delle barre di forza, agilità e resistenza che risultano determinanti nei combattimenti, e che plasmano le capacità del nostro personaggio. Vi è poi un complesso (e doppio) albero delle abilità che, in seguito ai combattimenti, consente di sbloccare nuove azioni da assegnare al nostro personaggio nelle fasi di lotta. Queste si svolgono passivamente, con il giocatore chiamato ad assistere all’incontro del proprio alter ego senza poter scegliere le mosse da effettuare, con la sola libertà di riorganizzare il set di mosse attive tra un round e l’altro. Vi è dunque un importante elemento strategico nel gioco, che obbliga il giocatore a valutare le caratteristiche del proprio avversario e a selezionare il giusto set di mosse e perk per riuscire a portare a termine i combattimenti con successo. Allo stesso tempo, la passività dei combattimenti e l’aspetto aleatorio dei colpi andati a segno e delle schivate o parate completate tolgono un po’ di mordente a queste fasi fondamentali di gioco. Avremmo di gran lunga preferito la possibilità di dare qualche indicazione al nostro alter ego durante la lotta, anziché assistere impotenti all’esito di ogni round.
    Punch Club è impegnativo, e nelle fasi iniziali vi troverete completamente sopraffatti dalla quantità di cose da fare e dalla difficoltà nel riuscire a fare quadrare i conti restando in forma e “sani”. Mano a mano che si procede nell’avventura, il gioco inizia ad arricchirsi di possibilità: la mappa si popola di luoghi da raggiungere e azioni da compiere, vi è la possibilità di prendere parte a incontri clandestini, a svolgere lavori al limite della legalità e a consegnare pizze a strani rettili ninja che vivono nelle fogne. Vi è l’immancabile storia d’amore, e vi sono personaggi apparentemente insignificanti che vi svelano nuovi tasselli di un gioco decisamente più stratificato del previsto. La trama segue quella dei videogiochi anni Ottanta: esile, a tratti pretestuosa, funge più da collante tra le varie fasi di gioco che da reale elemento portante dell’esperienza, e in ultima analisi si occupa solo di fornire un background al nostro personaggio e a darci un motivo per menare le mani.

    Punch Club è realizzato con uno stile grafico che ricorda le produzioni dell’era arcade. Non è un caso, infatti, che gli sviluppatori abbiano scelto di implementare un facoltativo - ma caldamente consigliato - filtro retrò che applica una griglia dei pixel alle immagini del gioco, restituendo quell’effetto “linee di scansione” che tanto amavamo nei bar e nelle sale giochi venti e più anni fa. La musica, poi, è costituita da temi chiptune che devono tutto alle grandi glorie a 16 bit, e che risultano particolarmente appropriati per questo titolo.
    Da un punto di vista strettamente artistico, Punch Club è un gioco molto riuscito: gli sviluppatori devono essere cresciuti tra gli anni Ottanta e Novanta, perché la loro capacità di inserire easter egg e cenni alla cultura di quel tempo è encomiabile. Se siete nati nell’ottanta-e-qualcosa, come scritto in apertura, alcuni aspetti di Punch Club vi faranno letteralmente impazzire.
    Per tutti gli altri, questo gioco resta comunque un buon manageriale che, nonostante le meccaniche relativamente ripetitive (ma fisiologiche, in questo genere di giochi) può divertirvi anche per brevi sessioni

Homeworld:Desert of Kharak


  • Piattaforme:PC

  • Genere:Strategico

  • Sviluppatore:Blackbird Interactive

  • Data uscita:20 gennaio 2016

     

     

    Per un appassionato di strategia Homeworld è un nome sacro, uno di quelli che non andrebbero mai toccati, per non rischiare di incrinare un marchio che nel genere è messo da alcuni giocatori sullo stesso piano dei capolavori più noti. 
    Eppure un seguito lo vorrebbero un po' tutti. Vuoi perché ormai manca da anni, vuoi perché di rts di alto livello dotati di movimento davvero tridimensionale non se ne vedon più da un'eternità.
    Ora, dopo eoni, le cose hanno cominciato finalmente a muoversi: i Gearbox hanno acquistato i diritti della serie grazie al crollo di THQ, e dopo aver recuperato gli asset necessari han fatto spuntare una Remastered Collection di tutto rispetto, che ha riaperto le ghiandole salivari di un sacco di appassionati. E adesso, finalmente, esce un nuovo capitolo della serie ad opera dei Blackbird Interactive, uno studio di sviluppo composto in larga parte da ex Relic che hanno avuto a che fare con lo sviluppo degli originali.
    La tensione era alle stelle, in larga parte per la storia recente non proprio cristallina di Gearbox e parzialmente per l'ambientazione più classica, nata anche dal fatto che inizialmente il titolo doveva chiamarsi Shipbreakers ed essere solo un successore “spirituale”. E invece si è trasformato in una collaborazione diretta tra le due software house, e in un prequel al primo Homeworld, ambientato sul pianeta Kharak da cui tutto ha avuto origine. Il risultato? Ottimo e abbondante, nonostante alcuni significativi cambiamenti.
    Se avete giocato ai capitoli principali, saprete già più o meno dove va a parare la trama di Deserts of Kharak. Come detto, è un prequel, ambientato un secolo prima degli eventi di Homeworld su un pianeta sabbioso diviso dalla guerra tra clan. Voi prenderete il comando dei popoli del nord, impegnati in un conflitto su larga scala causato della scoperta di un misterioso oggetto, l'Anomalia Primaria, scoperto da un satellite al centro del deserto. L'artefatto potrebbe essere la chiave per la sopravvivenza della popolazione di Kharak, un luogo ormai quasi completamente desertico e privo di risorse, ma il popolo dei Gaalsien, estremamente religioso e convinto che una fuga nello spazio sarebbe sacrilegio per la propria divinità, non ha la minima intenzione di far arrivare la vostra armata a destinazione. 
    Come detto, i veterani della serie sanno già cosa si trova al centro del deserto, e per loro questo sarà solo un dettagliato resoconto di come gli abitanti del pianeta Kharak vi sono arrivati. La storia, tuttavia, funziona comunque benone, poiché non manca di strizzare l'occhio ai giocatori con continui rimandi al passato (come il nome della protagonista femminile, Rachel S'Jet) e scorre con grazia, narrata da cutscene di gran classe disegnate e animate con molta cura. Insomma, Deserts of Kharak mantiene la forte componente narrativa degli Homeworld originali nonostante una semplificazione generale della trama, un fattore che non andava assolutamente trascurato e siamo lieti di aver potuto confermare. A cambiare, seppur meno del previsto, è stato il gameplay.
    Il mutamento principale, dopotutto, è evidentissimo fin dai primissimi secondi: non siamo nello spazio. Deserts of Kharak è ambientato su un pianeta, nel deserto, senza movimento libero in tre dimensioni, e con meccaniche di spostamento delle unità nettamente più vicine a quelle di altri strategici. Eppure la sua struttura è vicinissima a quella degli Homeworld spaziali, per una serie di interessanti trovate nella gestione del terreno e di un riciclo di alcune delle meccaniche più riuscite della serie.
    Le dune, ad esempio, portano le unità ad avere vantaggi sensibili in combattimento. Da una posizione sopraelevata le unità sono più precise e fanno danni maggiori, mentre un rialzo potrebbe letteralmente bloccare la linea di tiro di certe truppe. Gli spostamenti sono meno complessi dunque, ma in generale il feeling è molto simile, con pattern delle unità che ricordano i movimenti delle navi, e una struttura delle armate diversificata ma non in modo eccessivamente complesso. C'è chiaramente la microgestione delle unità ma, essendo gli spostamenti lentini e le abilità attive relativamente poche e semplici da attivare, è chiaro che il fulcro sta ancora una volta nella gestione dell'insieme, e in particolare ci si concentra parecchio sul recupero delle scarse risorse sparse per le mappe (da recuperare a volte con vere e proprie "demolizioni" di relitti antichi). D'altronde è stato mantenuto anche il sistema di “sopravvivenza” delle truppe, con la propria armata che si mantiene la stessa di missione in missione. Questa scelta ragionata alza enormemente la tensione durante le battaglie, visto che una vittoria di Pirro porterebbe ad avere enormi difficoltà nella mappa successiva.
    Anche a livello di interfaccia le similarità al recente Remaster sono evidenti, così come è rimasta la base della “nave madre” per la produzione delle unità, qui sostituita da una sorta di portaerei con le ruote a cui sono affidate anche le scoperte ingegneristiche e la raccolta di materiali tramite unità di lavoro. 
    La campagna, però, è sensibilmente diversa da quella degli originali, perché con la nuova location sono arrivate anche situazioni più limitate e pericolose, dovute a zone non percorribili dal nostro quartier generale mobile o a situazioni di attacco da più lati dove ci si può ritrovare praticamente circondati. È un gioco più teso in parole povere, non altrettanto innovativo, ma indubbiamente in grado di dire la sua in un genere sempre più desertificato come quello degli rts. 
    Molto piacevoli anche le sottili differenze che si notano quando si controlla la razza dei Gaalsien, dotati di unità più mobili e con variazioni marginali ma percettibili. Gli avversari sono utilizzabili solo in schermaglia o online, modalità dove l'offerta non è propriamente elevatissima, eppure l'interesse resta piuttosto elevato, poiché anche con due sole fazioni simili la modalità “recupero artefatti” si è rivelata originale e divertente quel tanto che basta a giustificare un po' di partitelle in rete. Sia chiaro, Deserts of Kharak rimane un titolo pensato per il singleplayer, la cosa è piuttosto ovvia.
    Persino tecnicamente c'è poco di cui lamentarsi. Ok, Kharak non è esattamente il più vario dei pianeti, ma le sue dune sono di ottima fattura e le mappe si lasciano guardare. Il conteggio poligonale delle unità non è a sua volta molto alto, eppure le animazioni, davvero molto curate, donano gran personalità al tutto, dalle Dune Buggy che gironzolano tra la sabbia agli hover tank dei Gaalsien, senza cadute di stile. Notevoli anche gli effetti particellari delle esplosioni e la transizione istantanea alla mappa tattica, anch'essa ripresa dagli originali e comodissima per avere una visione d'insieme più ampia durante l'azione. I Blackbird Interactive han fatto davvero un ottimo lavoro.
    Discreta infine la longevità. La campagna non è titanica, ma vi terrà occupati per 7-8 ore, specialmente se la affrontate alla difficoltà massima. 

giovedì 21 gennaio 2016

Pro Basketball Manager 2016

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Manageriale

  • Sviluppatore:Cyanide Studios

  • Data uscita:13 gennaio 2016

     

     

    Pro Basketball Manager 2016 permette dunque di prendere il controllo di un team incluso in uno dei circa settanta campionati disponibili. La varietà della scelta è veramente elevata, e cambia in maniera importante quelli che poi sono gli obiettivi di gioco: se con uno squadrone NBA ci si dovrà impegnare per raggiungere i playoff, con le squadre dilettantistiche bisognerà convincere i giocatori a unirsi alla nostra compagine a titolo gratuito. Non mancano, poi, i maggiori campionati europei, così come anche alcune competizioni femminili. Insomma, il database iniziale è veramente molto ampio, e include anche valori appropriati alle performance reali dei giocatori. Così come constatato nell’anteprima, è un vero peccato che non siano presenti i nomi autentici di squadre e atleti, ma è anche vero che gli appassionati, a pochi giorni dall’uscita, hanno già prodotto le prime patch amatoriali che vanno a inserire loghi, faccine e nomi reali.
    La modalità carriera è strutturata in maniera classica, e permette di avere il controllo completo su numerose aree manageriali. Si va dalla gestione delle tattiche allo scouting, passando per il mercato e gli allenamenti. Questa ultima sezione è organizzata in maniera simile a quanto visto nelle ultime edizioni di Football Manager, ovvero con una divisione in allenamenti di squadra e individuali; il mercato, invece, segue dinamiche differenti a seconda della lega a cui si sta prendendo parte. Nell’NBA, infatti, si dovranno seguire le varie regole relative a free agent, opzioni, salary cap e quant’altro, mentre nel campionato italiano si potrà scegliere se inoltrare offerte definitive o anche per il prestito di un giocatore. A questo proposito, dobbiamo dire come la IA ci sia sembrata un po’ troppo propensa ad accettare le nostre offerte: al comando dei Sacramento Kings, ad esempio, le nostre trade proposte ai Nuggets per Gallinari e ai Raptors per Scola sono andate subito in porto, senza bisogno di negoziazioni prolungate o controproposte.
    La direzione finanziaria, invece, gode della possibilità di poter incidere sui prezzi dei biglietti e del merchandising, mentre la gestione dello staff è tutto sommato schematica, e consente di assumere solo un determinato numero di collaboratori.

    Sintetizzando in maniera un po’ brutale, è possibile dire che la parte gestionale di Pro Basketball Manager 2016 fa quello che deve fare: le aree di azione sono molte, e certamente consentono di organizzare la propria squadra in maniera sufficiente. La sensazione, a volte, è che l’esperienza di gioco sia ancora un po’ grezza, e che manchi di alcuni automatismi che la possano rendere ancora più completa.
    Che dire, però, della parte più dinamica dell’esperienza offerta dal titolo, ovvero la riproduzione delle gare? Il discorso, qui, è un po’ più complicato.
    Di base, il gioco offre la possibilità di seguire in maniera completa le gare, giocata per giocata, attraverso una visuale 2D o 3D. La scelta ricalca in modo pressoché totale quanto si vede in Football Manager, e consente quindi di godere della gara con una visuale dall’alto che include i classici “pallini”, oppure con una visuale che cerca di riprendere maggiormente le fattezze dei giocatori. Così come sottolineato nell’anteprima, le due soluzioni hanno i loro pro e contro, anche se la scelta in questione spesso dipende da preferenze personali. Il fattore che più ci ha impressionato durante questi frangenti di gioco, in ogni caso, è sicuramente la gestione degli schemi. Prima di ogni possesso offensivo, infatti, è possibile scegliere numerosi parametri che, nella maggioranza dei casi, vengono riproposti sul campo dai nostri giocatori. Si può scegliere, scendendo un po’ nello specifico, la disposizione iniziale dalla quale partire (per esempio una classica formazione con un pivot centrale e due ali e guardie a supporto), quale giocatore dovrà concludere il possesso, con quale tipo di giocata, e attraverso quale schema. Oltre a questo, è possibile avere un’anteprima della giocata che si vuole eseguire, con tanto di mini campo da gioco su cui i pallini corrispondenti ai nostri giocatori mostreranno quale sia lo schema che vogliamo eseguire. In effetti, la visuale 2D consente di avere una migliore visuale sulle dinamiche di gioco, specialmente per quanto riguarda i movimenti offensivi dei giocatori. Dal punto di vista difensivo, invece, la gestione tattica consente di scegliere tra vari schemi, nonché di approntare marcature a uomo specifiche, con tanto di livelli di pressing personalizzati per ogni giocatore. Durante la partita, in ogni caso, bisognerà sempre tenere sott’occhio la tenuta fisica dei nostri giocatori, nonché il loro numero di falli, e perciò spesso sarà necessario fare affidamento alle sostituzioni. Tutte queste caratteristiche sono sicuramente positive, anche perché difatti il loro impatto sulla partita è spesso immediato e coerente. Difatti, però, la possibilità di seguire passo per passo le giocate durante l’intera partita diventa quasi una necessità, considerato che simulando i match spesse volte si andrà incontro a sconfitte. La già citata impossibilità di automatizzare alcune funzioni, poi, obbliga ad intervenire molto spesso (le numerose sostituzioni, tanto per dirne una, dovranno essere sempre eseguite dal giocatore, e tutto ciò è abbastanza fastidioso). Tutto ciò porta a match abbastanza lunghi da seguire, anche sfruttando la possibilità di raddoppiare o quadruplicare la velocità delle giocate. Si tratta di una dinamica che probabilmente non dispiacerà poi più di tanto agli sfegatati di basket, ma che ai meno pazienti potrebbe far sì che il gioco venga presto a noia, considerato che ogni partita potrebbe portare via anche diversi minuti.
    Tecnicamente parlando, Pro Basketball Manager 2016 è un prodotto non proprio esaltante: la rappresentazione 3D delle partite è povera, sia per quanto riguarda la resa delle animazioni che delle sembianze dei giocatori. Poteva essere fatto un lavoro decisamente migliore, ad esempio, sulla resa visiva degli atleti, che difatti non sono distinguibili tra di loro né per quanto riguarda il colore della pelle, né per la stazza; un fattore, quest’ultimo, che se ben realizzato consentirebbe invece immediatamente di distinguere il proprio centro dal proprio playmaker, tanto per fare un esempio, anche senza inserire particolari come il colore dei capelli o della pelle. Considerato poi che durante la visione 3D delle partite il gioco non si prenderà la briga di informarci su quale giocatore abbia la palla, magari inserendone il nome proprio sopra l’”omino” corrispondente, spesso e volentieri si dovrà ricorrere alla visuale 2D anche solo per sapere chi sta facendo cosa.  Tutto ciò, inoltre, rende difficile capire se un giocatore sta eseguendo un blocco correttamente, se sta tentando la penetrazione nel pitturato, oppure se è semplicemente in post. Il discorso vale sia per gli atleti maschi (che sembrano tutti un po' calvi), sia per le cestiste, che a quanto pare optano in massa per un caschetto biondo. Insomma, da questo punto di vista, il gioco ha ancora parecchia strada davanti a sé.
    Per quanto riguarda il comparto audio, il gioco propone dei rumori ambientali non particolarmente gradevoli, oltre che alcune musiche di sottofondo, facilmente stoppabili dall’apposito menu di gioco. Segnaliamo, infine, che al momento è disponibile la localizzazione testuale in diverse lingue, ma non in italiano.

lunedì 18 gennaio 2016

Xcom 2


  • Piattaforme:PC

  • Genere:Strategico

  • Sviluppatore:Firaxis

  • Data uscita:5 Febbraio 2016

     


    Come già alcuni di voi sapranno il nostro codice preview di XCOM 2 si è rivelato essere non funzionate, impedendoci pertanto di mettere le mani sulla versione pre-release del titolo. Tuttavia davanti a tale inconveniente non ci siamo tirati indietro, assicurandovi comunque la possibilità di avere accesso a tutte le notizie e le novità principali trapelate in quest'ultimo periodo. Firaxis sembra aver fatto un lavoro egregio, proponendoci uno degli strategici più promettenti dell'anno. Assicuratevi di proseguire nella lettura se volete scoprirne il perché.

    L'umanità è ormai stata soggiogata dagli alieni, sebbene siano veramente in pochi a rendersene conto. La maggior parte della popolazione infatti crede di essere al sicuro, di vivere in una vera e propria utopia, sotto l'illuminata guida dell'organizzazione “Advent”. Tuttavia quella stessa organizzazione, reputata da tutti come il baluardo dell'umanità, nasconde un terribile segreto. Essa è infatti completamente controllata dagli alieni, i quali si stanno muovendo rapidamente verso un diabolico piano dagli esiti imprevedibili, chiamato “Avatar Project”. In questo scenario apparentemente senza speranza il progetto XCOM rinasce in una nuova forma, molto diversa da quella del passato. I tempi correnti non consentono più un approccio diretto, ma bensì ne richiedono uno più discreto. I combattimenti su larga scala lasciano spazio a tattiche di guerriglia, portate avanti da ridotte sacche di resistenza, che cercano di ostacolare in ogni modo possibile i piani degli invasori. Entreremo così a comando dell'unica forza di opposizione rimasta sulla Terra, nel disperato tentativo di non soccombere. Questo è tutto ciò che sappiamo riguardo la storia di XCOM 2, le cui premesse risultano essere certamente più intriganti di quelle del primo capitolo.
    Differenti invece sono le informazioni legate al gameplay, le quali sono sostanzialmente più numerose ed interessanti. Come nel primo XCOM, anche in questo seguito fasi di gestione delle proprie risorse saranno alternate ad operazioni sul campo, creando quella dualità tanto funzionale quanto appagante che ben conosciamo. Sebbene la fase di gestione conservi molte delle caratteristiche passate non mancano alcune novità. La nuova base della resistenza è adesso una vera e propria fortezza volante, collocata all'interno di nave aliena catturata. Nonostante questo l'aspetto della base rimane molto simile con quanto visto in passato, presentandosi attraverso il classico taglio trasversale da cui potremo accedere ai diversi locali della base. Ancora una volta figurano la caserma, dove potremo gestire la squadra, i laboratori, dove potremo portare avanti ricerche utili alla causa, l'officina, in cui potremo realizzare i progetti della squadra scientifica e la sala di controllo, dove saremo in grado di gestire tutte le operazioni sul campo.
    La vera novità di questo seguito, almeno per quanto riguarda la fase gestionale, sta però nell'importanza che il fattore scelta riveste. Molto più che in passato ci ritroveremo costretti a compiere delle scelte che potranno influenzare pesantemente il corso della campagna. Nella stragrande maggioranza delle situazioni non esisterà una via totalmente giusta e una totalmente sbagliata, poiché molto dipenderà dalle nostre condizioni e necessità. L'esempio più emblematico è rappresentato dall'assenza dei satelliti. Chiunque abbia giocato il primo XCOM sa bene quanto i satelliti fossero importanti, al punto che la loro costruzione rappresentava un percorso obbligato per chiunque sin dalle primissime fasi di gioco. Nell'attuale situazione, essendo ormai privi del sostegno planetario, dovremo raccogliere noi stessi le risorse necessarie per proseguire lo sforzo bellico. Per farlo occorreranno giorni preziosi che saranno utilizzati per scansionare determinate aree del pianeta. Quegli stessi giorni potrebbero essere utilizzati per salvare scienziati o ingegneri, il cui ruolo è sostanzialmente differente. Tale personale adesso non sarà più visto come una sorta di risorsa dal valore numerico più o meno variabile, ma sarà considerato come un'entità unica. Ingegneri e scienziati potranno adesso essere impiegati singolarmente nella nostra base, permettendoci di usufruire di bonus alla velocizzazione di processi come quello di ricerca, di costruzione e di pulizia, o di aumentare la potenza di fuoco della base stessa. Chiaramente in tutto questo lasso di tempo gli alieni non rimarranno di certo con le mani in mano, ma porteranno avanti il loro misterioso progetto attraverso operazioni che dovremo sventare tramite l'intervento della nostra squadra. La vittoria nemica è rappresentata dalla barra “Avatar Project”, il cui totale riempimento coinciderà con la sconfitta totale. Risulta quindi evidente quanto importante sia scegliere con cura le proprie mosse, muovendosi sempre entro i confini di un equilibrio precario.

    Se consideravate il primo XCOM particolarmente difficile, questo seguito vi serberà una brutta sorpresa. Firaxis ha voluto rendere il proprio strategico di punta ancora più ostico e punitivo, incarnando perfettamente la situazione che la resistenza si trova ad affrontare. Ci troviamo davanti ad una guerra disperata, combattuta tra fazioni il cui divario bellico è abissale. In XCOM 2 perdere degli uomini sarà all'ordine del giorno, tramutando quella che veniva considerata una sconfitta, in una vittoria nel caso si riesca a limitare le perdite. Le operazioni sul campo saranno molto più impegnative che in passato, grazie a tutta una serie di fattori che andremo ad elencare in seguito. Vi basti sapere che avere truppe di riserva si rivelerà indispensabile, poiché accadrà più di una volta di sacrificare un membro della propria squadra per permettere agli altri di mettersi in salvo.
    Iniziamo col dire che il tempo di recupero delle ferite per i soldati è stato sensibilmente incrementato. Normali ferite richiederanno circa una settimana per guarire, mentre quelle più gravi potranno mettere fuori gioco i membri della squadra per quasi un mese. La maggior parte delle missioni adesso presenta un timer specifico, la cui scadenza coinciderà con il suo fallimento. Ciò era presente anche nel primo XCOM, ma in questo seguito le operazioni a tempo sono sensibilmente aumentate in numero, mettendoci davanti a restrizioni temporali sempre sufficienti per raggiungere lo scopo, ma mai veramente generose. Sarà dunque indispensabile abbandonare l'approccio di estrema cautela, andando incontro ai rischi che ne conseguono. Anche qui i nemici spawnano in aree prestabilite della mappa, ma adesso saranno in grado di muoversi seguendo ronde più o meno articolate, risolvendo così una delle problematiche del primo capitolo, che annullava concretamente il fattore imprevedibilità. Tra i nuovi nemici figurano le truppe dell'organizzazione Advent, che costituiranno gli avversari più comuni nelle prime fasi di gioco, i Sectoidi, ora resi molto più ostici grazie alla possibilità di infliggere debuff e rianimare i cadaveri, e le cosiddette Vipere, creature serpentiformi che sono in grado di bloccare i soldati in una morsa, ferendoli nel tempo. Per bilanciare la crescita in potenza della resistenza anche gli alieni sono stati dotati di un sistema di avanzamento. I cosiddetti Dark Event, paragonabili alle ricerche scientifiche dell'XCOM, permetteranno alla fazione nemica di accedere a diversi bonus di entità e tipologia particolarmente eterogenea, come armature potenziate o rinforzi addizionali durante le missioni. Ancora una volta starà a noi scegliere se evitare o meno tali potenziamenti, attraverso operazioni di contrattacco che impegneranno il nostro tempo, il quale potrebbe essere speso altrove.
    Avrete ormai capito quanto possa essere impegnativo combattere l'invasione aliena, tuttavia lo sviluppatore Firaxis non si è limitato a rendere il tutto semplicemente più ostico, ma ci ha offerto tutti i mezzi necessari per arginare questo fenomeno. I primi, sostanziali, cambiamenti sono già riscontrabili nelle classi di gioco. Modifiche e ribilanciamenti sono stati effettuati per tutte le classi presenti nel titolo, tuttavia solo alcune di esse hanno subito una rivisitazione più marcata rispetto a quello che era il loro concept nel primo capitolo. L'assaltatore prende adesso il nome di Ranger, elemento specializzato nella ricognizione e nel combattimento a distanza ravvicinata. La sua caratteristica principale sta nell'uso della spada, attraverso la quale può raggiungere i nemici ed eseguire un fendente di grande precisione e potenza. Una tecnica così efficace comporta comunque dei rischi, poiché approcciare un nemico in corpo a corpo renderà il soldato estremamente vulnerabile. Il Support diventa lo Specialista, elemento in grado di utilizzare un drone da remoto per dare supporto alla squadra o effettuare l'hacking di particolari dispositivi. Tramite l'hacking potremo ottenere buff temporanei più o meno potenti, ma i rischi di tale operazione saranno notevoli. Infatti, eccezion fatta per quelli obbligatori, ogni tentativo di hack comporterà il rischio di fallimento, deciso da una percentuale il cui valore dipenderà dalla disparità della caratteristica Tech tra il dispositivo e lo Specialist stesso. Il fallimento non solo attirerà le attenzioni del nemico, ma comporterà una serie di svantaggi da non sottovalutare. Un'altra importante modifica riguarda i poteri psionici, i quali non saranno più utilizzabili da chiunque abbia il dono, ma saranno prerogativa di una classe specifica.
    Tra le novità più interessanti non possiamo non citare la modalità “Concealment”, la quale permetterà finalmente di preparare ed eseguire delle vere e proprie imboscate. All'inizio della missione (sebbene non in tutte) il team sarà occultato al nemico. In questa modalità potremo approcciare l'avversario senza che questi si accorga di noi, impedendogli così di nascondersi dietro ad una copertura, come solitamente accade. Il modo migliore per sfruttare la modalità Concealment sta nel posizionare ogni membro della squadra in linea di tiro con il nemico, attivando l'opzione Guardia con ognuno di essi. L'ultimo elemento si occuperà attaccare in prima persona gli avversari, suscitando così la reazione che li porterà a cercare riparo. In quello stesso momento l'opzione Guardia permetterà ai nostri soldati di attaccare chiunque si muova, arrivando facilmente ad annientare tutti i nemici prima che lo scontro possa effettivamente iniziare. Una tattica così funzionale tuttavia possiede anche dei limiti ben precisi. La possibilità di essere occultati sarà attuabile solo una volta per missione, poiché il primo scontro rivelerà la nostra presenza. Inoltre è possibile fuoriuscire dalla modalità Concealment prematuramente nel caso si apra il fuoco, si entri nel campo visivo nemico (ben segnalato dall'interfaccia di gioco) o si produca un forte rumore, come sfondare porte o rompere finestre. Insomma attuare questa tattica richiederà una buona dose di strategia.

    Sostanzialmente rivisitato è anche il sistema di loot, più remunerativo del passato ma anche più rischioso. Talvolta i nemici quando sconfitti faranno cadere del bottino, il quale però non sarà più raccolto automaticamente. Starà ad un membro del team avvicinarsi abbastanza da poter raccogliere la ricompensa. Di conseguenza capiterà spesso che il loot si trovi in una zona a rischio, poiché priva di coperture o abbastanza avanzata da allertare truppe nemiche. Come se non bastasse il loot rimarrà sul terreno per soli tre turni, rendendo prioritaria la sua acquisizione. Tra le ricompense ottenibili figurano materiali di vario tipo e potenziamenti per le armi, i quali donano dei bonus quando montati su un pezzo di equipaggiamento.
    Perdere un soldato non è mai una bella esperienza, ma in XCOM 2 potrebbe essere ancora più tragico che in passato. Il sistema di personalizzazione dei soldati è infinitamente più ricco rispetto a quello del primo capitolo, permettendo di modificare gli aspetti più disparati della propria squadra, con la possibilità di sbloccare nuove opzioni con l'avanzamento di grado. Passare ore e ore a creare il proprio dream team salvo poi perderlo tragicamente in missione è un'esperienza che non auguriamo a nessuno. Uno dei problemi più rilevanti del primo XCOM era quello della varietà e del numero delle mappe, le quali già a metà campagna iniziavano a ripetersi. In questo seguito tale inconveniente sembra essere stato risolto, tramite la randomicità delle mappe stesse, che dovrebbero così conservare il proprio appeal molto più a lungo. Anche la distruttibilità è stata sensibilmente migliorata. Adesso non solo le coperture, ma anche intere sezioni di edifici possono essere distrutte, complice anche il nuovo comportamento del fuoco. Quest'ultimo infatti una volta appiccato (principalmente da esplosioni) inizierà a diffondersi nelle vicinanze, distruggendo nel tempo tutto ciò con cui entra a contatto. E' importante sottolineare che entrare in contatto con il fuoco ferirà nel tempo la nostra squadra (così come quell'avversaria), rendendo l'utilizzo degli esplosivi un'opzione da utilizzare con giudizio. Concludiamo col dire che la versione pre-release del titolo presentava ancora parecchi bug di minore e media entità, che speriamo vengano ripuliti in quella definitiva.

Assassin's Creed Chronicles India

  • Piattaforme:PC, PS4, PS Vita, Xbox One

  • Genere:Action-Adventure

  • Sviluppatore:Climax Studios

  • Data uscita:12 gennaio 2016 - 5 aprile 2016 (Chronicles Trilogy, anche su Vita)

     

     

    Quanto importante sia il brand Assassin’s Creed per Ubisoft è ormai sempre più evidente, ma piuttosto ovvio è anche il declino agli occhi del pubblico della saga, che nonostante un ottimo ultimo capitolo sembra far sempre più fatica a rinnovarsi e a stupire come faceva un tempo. Quale sia il futuro dei capitoli primari non è ancora noto, e l’unica cosa a cui ci possiamo attaccare di recente sono dei rumor non ancora confermati. Nel frattempo però Ubisoft ha deciso di utilizzare il marchio anche per degli interessanti prodotti digital, raggruppati nella miniserie Assassin’s Creed: Chronicles. Abbiamo già recensito il primo capitolo, ambientato in Cina, e ora è giunto il momento del secondo episodio, Chronicles: India. 
    Trattandosi di progetti minori, i Chronicles hanno le carte in regole per sperimentare a dovere e China in effetti ci aveva divertito, pur non risultando particolarmente memorabile. Che la chiave di volta si trovi nella mistica India? Vediamo.
    Questa nuova avventura mette il giocatore nei panni di Arbaaz Mir, un assassino già noto a chi segue l’universo di Assassin’s Creed anche attraverso i romanzi. Arbaaz è un abile combattente, che qui viene coinvolto nell’ennesimo furto di uno dei Frammenti dell’Eden e nel rapimento del suo mentore, Hamid. Esattamente come per il predecessore, insomma, non è la trama il punto forte della produzione, bensì il gameplay.
    Ora, se vi aspettate grossi cambiamenti rispetto a China cascate malissimo: Chronicles India utilizza un sistema di controllo pressoché identico e molto ispirato a quello di Mark of the Ninja, anche se dotato di meccaniche stealth sensibilmente più semplici e intuitive. L’elemento “originale” di questa serie sta nella prospettiva, è infatti un gioco 2,5D, in cui gli sviluppatori hanno gestito le possibilità di movimento di Arbaaz proprio attorno a questa particolare gestione della telecamera. Quella mezza dimensione in più, dopotutto, permette di variare non poco il level design, inserendo varie superfici scalabili, nascondigli in profondità, e sezioni platform ricche di trovate interessanti. In particolare la forza di India, rispetto al titolo precedente, sta nell’uso brillante proprio della prospettiva, grazie a location avanzate ricche di piattaforme mobili e muri instabili che la sfruttano al meglio (certi livelli “a tempo” in particolare si sono rivelati molto piacevoli). 
    Un passo avanti sensibile nel design del titolo dunque, anche se, per quanto riguarda le meccaniche, siamo sempre di fronte al solito mix di scalate rapide, combattimenti che girano attorno a due tasti, uccisioni silenziose e gadget utilizzabili. Ecco, tolto il chakram a rimbalzo, avremmo preferito vedere un po’ di cambiamenti almeno a livello degli oggetti, e invece ci sono ancora le solite bombe fumogene, l’utile rampino, e delle bombette rumorose per distrarre le guardie. Se avete appena completato China la transizione sarà incredibilmente naturale, certo, ma qualche scelta più coraggiosa ci poteva tranquillamente stare.
    La volontà dei Climax Studio pare in parole povere quella di utilizzare lo stesso sistema per tutti e tre i Chronicles, con un graduale aumento della complessità e del livello di sfida. Lo stesso India è dopotutto più impegnativo di China, con una crescita della difficoltà più rapida, livelli iniziali già zeppi di guardie, e mappe in generale più complicate e ispirate.
    Da elogiare senza dubbio sono anche i contenuti. L’avventura primaria è piuttosto breve, ma vi sono parecchie sfide disponibili per chi si è fatto catturare dal gameplay, tra cui assassinii e prove d’abilità. Lodevole anche il cambio stilistico della grafica, che pur basandosi sullo stesso motore ora vanta uno spiccato uso del colore per dare vitalità alle ambientazioni, ed effetti indubbiamente più adatti alle lande indiane, per un miglioramento generale minimo ma ad ogni modo percettibile. Se si considera il prezzo contenuto, i Climax sono riusciti a sfornare un titolo degno di essere acquistato da chi cerca uno stealth game piacevole e intuitivo, esattamente come era accaduto con Chronicles: China.

     

domenica 10 gennaio 2016

Pro Basketball Manager

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Manageriale

  • Sviluppatore:Cyanide Studios

  • Data uscita:13 gennaio 2016

     

     

    I manageriali sportivi, se ben sviluppati, possono essere capaci di tenere incollati per ore e ore davanti allo schermo. L’esponente principale di questa categoria di titoli è, ovviamente, sua maestà Football Manager, ma nel corso degli anni diverse sono state le incursioni (non sempre cosi fortunate, per la verità) in altre discipline, dalla formula 1 all’hockey su ghiaccio, passando per il ciclismo. Vediamo allora se il prossimo Pro Basketball Manager 2016, in uscita nel corrente mese di gennaio su PC, saprà farci provare le giuste sensazioni.

    Questa nuova edizione di Pro Basketball Manager 2016 permetterà di prendere il controllo di una tra le oltre 1000 squadre presenti. Considerata la presenza di circa 70 leghe giocabili, si può comprendere come la varietà dovrebbe essere uno dei punti di forza del titolo Cyanide. In effetti, la prima idea che potrebbe venire in mente quando si approccia un titolo del genere potrebbe essere quella di prendere il controllo di una squadra italiana o, ancora meglio, di una squadrone NBA, e andare a conquistare il mondo. Il titolo in questione, invece, permette di scegliere anche avventure più “esotiche”, come la lega universitaria statunitense, l’appassionante campionato turco, alcune serie minori dei campionati più importanti (anche la serie A2 italiana), ma anche le controparti femminili di alcune leghe (tra cui quelle italiane e francesi). Come si vede, dunque, la carne al fuoco è tanta, anche se è indubbiamente un peccato che l’assenza di licenze abbia costretto gli sviluppatori a ricorrere al vecchio trucchetto della sostituzione delle vocali originali dei cognomi; Belinelli così diventa Belinella, Curry si trasforma in Currz, e così via.
    Dal punto di vista manageriale, l’esperienza che offrirà Pro Basketball Manager 2016 è definibile classica: trovano posto la gestione delle tattiche, degli allenamenti (individuali e di squadra, come in Football Manager), e delle finanze. A questo proposito, sottolineiamo con piacere la presenza della gestione del merchandising, un po’ sulla falsariga dei vecchi PC Calcio o, se si vuole rimanere in ambiti più recenti, come nelle carriere più strutturate degli ultimi Madden. Si può controllare il prezzo dei biglietti di ogni settore del proprio palazzetto, scegliere di ristrutturare alcune aree specifiche, e scegliere se rincarare o meno il prezzo di patatine, birra, magliette e così via. Si può persino scegliere se includere o meno la presenza di mascotte, speaker e costose cheerleader.
    Non manca la gestione dello scouting in giro per il mondo, così come quella del mercato, che segue le varie regole dei campionati. Alla complessità delle contrattazione NBA, dove ci si deve destreggiare tra luxury tax, draft e free agent, fanno da contraltare le realtà dilettantesche, e quelle dei campionati europei.
    Come qualsiasi altro manageriale sportivo che si rispetti, anche Pro Basketball Manager 2016 offrirà una rappresentazione grafica delle gare che si andranno ad affrontare. Nel caso del titolo Cyanide, la scelta è stata quella di confermare la presenza delle rappresentazioni in 2D e 3D, seguendo un modello che ricalca molto da vicino quello di Football Manager. Anche qui, infatti, è possibile seguire la partita con una visuale dall’alto, in cui i giocatori sono raffigurati come semplici pallini, oppure optare per una versione tridimensionale. Entrambe le opzioni hanno pregi e difetti, anche se possiamo dire che la rappresentazione 3D delle partite sembra soffrire di alcune mancanze, non tanto per quanto riguarda il comparto tecnico, che difatti è ridotto ai minimi termini, quanto per la riproduzione di alcune giocate, che si lasciano apprezzare meglio con la visuale dall’alto. Durante la partita, infatti, è possibile agire sulla nostra squadra in vari modi, ad esempio operando sostituzioni, modificando il sistema difensivo (passando da marcatura a uomo a uno dei vari tipi di zona), ma anche suggerendo quale giocatore dovrà portare a termine il prossimo possesso. Durante le nostre prove, controllando Sacramento, abbiamo chiesto spesso a Belinelli di proporsi per un tiro da tre, o meglio ancora per uno dei suoi letali tiri dalla media distanza uscendo dal blocco. In alcune occasioni il gioco ha risposto bene alla nostra sollecitazioni, mentre altre volte l’azione ha seguito altre dinamiche.
    Dobbiamo dire che il basket, probabilmente, non è lo sport migliore per una simulazione di questo tipo, ma se non altro le opzioni offerte dal gioco danno una certa libertà al giocatore, che ha la possibilità di velocizzare il tempo di gioco fino a 4X, oppure di “skippare” un quarto o tutta la partita. L’impressione, in ogni caso, è che il gioco sia ancora un po’ grezzo dal punto di vista della simulazione della partita, proponendo in ogni caso qualche feature senza dubbio interessante.
    Poco da dire sul comparto tecnico: l’interfaccia, al momento, risulta pulita e sufficientemente definita, mentre la riproduzione 3D delle partite, lo ripetiamo, è ridotta ai minimi termini, e non prevede differenze sostanziali tra palazzetti e parquet. Anche i giocatori, difatti, sono poco differenziati tra loro.

     

Pony Island

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Puzzle game

  • Sviluppatore:Daniel Mullins Games

  • Data uscita:4 Gennaio 2016

     

     

    Chiariamolo subito: Pony Island non è un gioco sui pony; è piuttosto l'ennesima riprova di quanto i progetti indipendenti stiano tirando fuori la parte migliore di questa industria fatta di poche novità e tanto piattume creativo. Qualche mese fa incensai Undertale premiando il lavoro e l'acume di Toby Fox, che praticamente da solo ha creato uno dei più geniali jrpg degli ultimi anni; oggi faccio la stessa cosa con Pony Island, che prosegue idealmente quel filone di brillante originalità che spiazza, confonde, stupisce e sovverte completamente i canoni classici del gameplay. Undertale lo ha fatto col genere dei giochi di ruolo; Pony Island lo fa con quello dei puzzle/platform, in un modo talmente strambo, particolare e stravagante da riuscire a offrire qualcosa di realmente nuovo e inatteso. E no, lo ripeto: Pony Island non è un gioco sui pony. 
    Ci sono i Pony? Sì. Controllate un pony? Talvolta. E allora perché si chiama così? Semplice: si tratta del gioco che avrebbe dovuto essere dal punto di vista dello sviluppatore, da quello del protagonista, da quello del giocatore e da quello distorto del demonio che si annida tra le righe di un codice sballato che fa funzionare le cose come non dovrebbero. Se vi sentite confusi da queste prospettive conglobate in una vivace successione di scatole cinesi della personalità, posso capirvi: nel titolo creato da Daniel Mullins, in effetti, c'è ben poco di normale.
    Pony Island è un puzzle game sotto mentite spoglie. Ed è qualcosa di veramente geniale.
    Siete in una sorta di limbo informatico, intrappolati in un malevolo e malfunzionante cabinato arcade architettato dal Diavolo, da colui che ha tanti nomi e tante forme. Quando il Demonio decide di infiltrarsi in un videogioco in modo subdolo, lo fa sotto le sembianze di un gioco innocente come Pony Island, che dovrebbe essere un titolo spensierato e felice, per tutti; in realtà è corrotto e guasto, e ha un'anima nera che viene immediatamente fuori sin dalla schermata di avvio, che non funziona dopo il vostro primo input e non fa partire quello che avrebbe dovuto essere il Pony Island allegro e colorato che vi aspettavate. 
    Il gioco di Daniel Mullins è un costante abbattimento della cosiddetta quarta parete, un'esperimento di game design che trasforma l'interazione classica in un fenomeno di interconnessione continua, che va al di là dei consueti impulsi audiovisivi collegati al videogioco: all'utente viene richiesto, con un escamotage intelligente e perfettamente riuscito, di mettere mano al codice sorgente di Pony Island. Non siate tuttavia spaventati, perché non dovrete programmare nulla e non dovrete complicarvi la vita davanti a complessi algoritmi per sviluppatori. Al contrario, dovrete rimettere a posto il codice corrotto da Satana, risolvendo dei puzzle gestiti da alcuni diagrammi di flusso per sistemi informatici. Inizialmente si tratterà di sistemare - con dei simboli molto chiari che danno ordine e schematicità - il corretto fluire delle righe di comando; in seguito, dovrete avviare porzioni del codice stando attenti a regolare dei cicli di reindirizzamento interni con condizioni tipiche come "if/else", senza tuttavia dover scrivere nulla da tastiera. Sebbene nel corso del gioco dobbiate usare i tasti per intervenire in chat testuali con l'altra anima intrappolata e con l'entità demoniaca, non c'è mai il rischio che dobbiate improvvisarvi dei programmatori della prima ora. In questo senso, è ammirevole la natura degli enigmi, che stimolano il pensiero laterale e obbligano gli utenti a escogitare soluzioni sempre legate alla logica. 
    I momenti iniziali di Pony Island, ancora più di quelli successivi, sono davvero spiazzanti. Vi ritroverete in alcune particolari fasi di gioco a osservare stolidamente la schermata senza capire effettivamente cosa fare. Vorrete cliccare sulle opzioni, ma queste si disgregheranno davanti ai vostri occhi obbligandovi a formarne di nuove con le parole che nel frattempo si sono ammassate sul fondo dello schermo; vorrete dare l'ok su una finestra del sistema operativo, ma il cursore d'improvviso si muoverà più veloce della vostra mano e ve la chiuderà anzitempo; vorrete riposizionare liberamente la dannata freccetta del mouse da una parte, ma una forza vi remerà contro, spostandola in un punto specifico che darà inizio alla versione grottesca di Pony Island. Questi e molti, troppi altri, sono i momenti in cui è il gioco a giocare con voi e non viceversa. È Satana che vuole piegarvi alla sua volontà, agendo dapprima in modo imperscrutabile mentre corrompe il gioco, e poi in maniera sempre più esplicita, mettendovi alla prova e affrontandovi. Sta a voi individuare delle brecce da cui è possibile entrare all'interno del codice, epurandolo dal male e dai suoi processi illogici e balzani, che hanno tramutato Pony Island in una versione oscura del gioco che doveva essere in origine. In un'esca alla quale abboccano giovani anime innocenti.
    Il vostro scopo, in questo susseguirsi di stramberie inattese, è cancellare i tre file principali attraverso cui il maligno controlla il suo piano. Nel corso dei tre atti previsti cambierete continuamente il modo di approcciarvi al gioco: risolverete puzzle, supererete i cupi livelli bidimensionali a cavallo di un pony che acquisirà man mano nuove abilità, affronterete un'adventure mode e, soprattutto, imparerete a interagire con un'interfaccia in un modo che francamente non si era mai visto.
    Potremmo dire che Pony Island è composto da tre fasi distinte che talvolta si accavallano per ragioni "di copione". Nella prima dovrete trovare la quadratura del cerchio cercando di capire come interagire coi diversi strati dell'interfaccia, alcuni dei quali sono ben occultati per non far ottenere ai giocatori i fatidici "ticket". Nella seconda fase dovrete sviluppare una sorta di percorso all'interno dell'adventure mode, superando semplici livelli da platform a scorrimento e risolvendo un paio di enigmi legati al codice fittizio di gioco. Nella terza, oltre a vedere la facciata originaria di Pony Island, si consumerà lo scontro finale, al termine del quale verrete posti in una particolare posizione che vi metterà simpaticamente con le spalle al muro. Ma non vogliamo rovinarvi la sorpresa: spetta a voi scoprire di cosa stiamo parlando. 
    Se proprio dovessimo muovere qualche appunto al titolo di Mullins, potremmo dire che le fasi di platform sono un po' troppo spoglie ed essenziali, con giusto un paio di ostacoli che si intervallano con maggiore frequenza e un nemico più ostico del solito che ogni tanto fa la sua apparizione. Sul fronte dei puzzle, invece, bisogna dire che se non si entra rapidamente nella logica stringente dei sistemi qui proposti, si potrebbe avere qualche difficoltà di troppo, specialmente quando bisogna creare dei loop interni e scambiarli "in corsa", mentre il codice viene letto e fluisce in maniera corretta. Tutto il resto è innovazione ed estro applicato al videogioco: Pony Island, nella sua dimensione indie che comprende un comparto tecnico assai modesto, distrugge gli schemi classici del gameplay e ne crea di nuovi, mettendoli al servizio di un genere che ha trovato un'ulteriore strada da percorrere: un nuovo sbocco fatto di inventiva, soluzioni inedite e affascinanti sperimentazioni di gioco.

Sword And Sorcery

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Gioco di ruolo

  • Sviluppatore:Olderbytes

  • Data uscita:15 dicembre 2015

     

     

    L’esperienza proposta da Swords and Sorcery - Underworld, rinnovata versione del titolo PC sviluppato da OlderBytes, potrebbe disorientare i giocatori abituati a titoli più moderni: una volta avviato il gioco si avrà a che fare con schermate fisse, un sacco di testi da leggere, e quest impegnative. Vediamo se l’avventura in questione è, allora, un degno omaggio ai titoli del passato.

    Appena avviato il gioco, ci si renderà subito conto dell’atmosfera decisamente retro, ma non per questo di bassa qualità, del titolo OlderBytes (il nome dello studio, d’altra parte, sembra essere tutto un programma). Si tratta di un gioco di ruolo a turni in prima persona, nel quale si dovrà guidare un party di sei eroi in un’avventura longeva, e che porterà via qualche decina di ore.
    L’inizio del gioco illustra, in poche schermate, perché il nostro intervento sia necessario: il periodo di pace e prosperità dei reami conosciuti, infatti, viene sconvolto nel momento in cui orde di mostri dall’origine misteriosa sconvolgono l’esistenza di tranquilli villaggi e cittadine. Con la popolazione che si concentra in castelli e fortezze, e l’intera campagna che viene lasciata alla mercé dei mostri, le uniche zone parzialmente sicure sono le taverne; in una di queste, un gruppo di eroi alza la testa e pianifica la distruzione dell’oscura minaccia che incombe. Parte così, allora, l’avventura proposta da Swords and Sorcery - Underworld, che subito dopo la breve introduzione ci chiederà di formare il nostro party; a questo proposito, è possibile utilizzare i sei modelli già disponibili, oppure sbizzarrirsi nella creazione dei propri eroi personalizzati. Le variabili chiamate in causa sono molte, e divisibili in tre macro categorie, ovvero il sesso, la razza (elfo, umano, nano, gnomo), e la classe (cavaliere, paladino, arciere, stregone, sacerdote e ladro). Le combinazioni di queste tre categorie portano a una varietà veramente notevole, che consente di creare un party strutturato; si potrebbe pensare, ad esempio, di creare una buona base partendo con arcieri e stregoni che possano attaccare anche da lontano, accompagnando il tutto con un ladro furtivo che possa nascondersi alla vista dei nemici, e con la forza d’urto di cavalieri e paladini. Le statistiche individuali dei propri eroi, d’altra parte, consentono di rifinire ancora più nel dettaglio la composizione del proprio team, potendo scegliere come spendere i propri punti abilità nelle categorie forza, resistenza, precisione, velocità, spirito (decisivo per stregoni e sacerdoti), intelligenza e fortuna.
    Dopo aver passato un buon numero di minuti a scegliere i membri del proprio party, inizierà l’avventura vera e propria; il primo impatto col gioco, lo ripetiamo, potrebbe essere un po’ disorientante, perché ci si dovrà muovere in uno scarno mondo tridimensionale attraverso una visuale in prima persona che, complice una notevole rigidità di movimento, potrebbe rendere necessario un certo periodo di ambientamento. La struttura portante del gioco, in ogni caso, prevede periodi di esplorazione dell’ambiente, intervallati da scontri: di questi, alcuni sono generati in maniera casuale, mentre altri seguono la main quest.
    Gli sviluppatori definiscono l’esperienza di gioco come “astratta, ma profondamente tattica”, e possiamo dire che questa affermazione ci è sembrata assai corretta fin dai primi istanti di gioco. Non si può pensare, in Swords and Sorcery - Underworld, di gironzolare col proprio party, incontrare dei nemici, e farne un sol boccone senza un minimo di strategia. Il titolo, infatti, sarà abbastanza impegnativo fin dai primi scontri, e il carattere astratto cui si accennava poco fa non fa che aumentare il senso di possibile disorientamento. Ci spieghiamo meglio: una volta che si incontreranno dei nemici, infatti, partirà uno scontro in cui l’ordine dei turni è determinato non dal valore della fortuna, ma bensì da quello della velocità. Una prima, possibile difficoltà risiede nel fatto che la schermata di gioco, sempre in prima persona, non illustrerà la posizione dei nostri eroi, ma solo quella dei nemici. Per rendersi conto se un nostro personaggio può compiere determinate azioni (ad esempio l’attacco corpo a corpo, o incantesimi vari), si dovrà fare affidamento sulle icone poste nella parte bassa dello schermo, che indicheranno quali opzioni saranno disponibili. In questa stessa sezione, saranno disponibili le azioni speciali, uniche per classi e livelli di esperienza, che sarà possibile effettuare; saranno le icone di questa porzione di schermo, peraltro, che potranno farci avanzare nello scontro, rendendo possibile l’attacco corpo a corpo, oppure farci retrocedere. Si può persino cercare di scappare dalla battaglia, salvando il party da una sconfitta certa. E’ un peccato che tutte queste scelte, che restituiscono combattimenti spesso molto gradevoli e veramente molto tattici, non restituiscano altro che un feedback in forma testuale, che ci informerà sull’esito dei nostri attacchi, e su quelli dei nostri nemici. E’ pur vero che il gioco ci informa della posizione dei nostri eroi grazie a differenti posizioni e colorazioni dei rispettivi avatar, ma è anche vero che il non avere sott’occhi la propria posizione potrebbe essere un problema, specie durante le prime schermaglie che, d’altra parte, non saranno così facili da vincere. Lo dobbiamo ripetere: attaccare senza un minimo di criterio ci farà fare delle brutte figure, e magari anche perdere la partita, considerato che nel momento in cui tre eroi vengono uccisi il gioco finirà.
    In ogni caso, non di sole schermaglie vive l’eroe di Swords and Sorcery - Underworld: nel momento in cui non si è in battaglia, si dovrà girovagare per varie cittadine, e stare attenti alle esigenze del proprio party in termini di cibo e acqua. Riposare, ad esempio, è cosa buona e giusta, perché rigenera il mana di sacerdoti e stregoni, e l’energia di tutti gli eroi non ancora morti, ma consuma proprio unità di acqua e cibo, e lascia i nostri in balia di possibili incontri con nemici; quando si è impegnati a setacciare le tre città disponibili, poi, si potrà anche investigare, di modo da scoprire segreti e tesori che potrebbero tornare utili per il proseguimento di alcune quest, nonché per arricchire le pagine del proprio bestiario, in cui annotare tutti i mostri in cui ci si è imbattuti. Non possiamo tacere, poi, della gestione dei propri eroi, che dopo ogni livello guadagneranno oro buono da investire nei mercati di oggetti e armi, nonché preziosi punti esperienza, che sbloccheranno nuove abilità speciali. Insomma, di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante, proprio perché il titolo OlderBytes, che difatti non propone un solo oggetto animato su schermo, è ricco di cose da fare e conoscere. Di sicuro non risulta attraente come altri titoli (anche appartenenti allo stesso sottogenere), ma verrà apprezzato dagli appassionati giochi di ruolo estremamente old school.
    Giocare a Swords and Sorcery - Underworld è un po’ come lanciarsi in una partita di Dungeons & Dragons con tanto di carta, penna e dadi; per godere appieno della estrema profondità dell’esperienza di gioco, in altre parole, è necessaria quella fantasia che riesce ad animare le figure statiche che appaiono sullo schermo, oppure a creare le aure magiche degli incantesimi degli stregoni, e così via. Se si riesce nell’impresa, o semplicemente non si fa caso alla pochezza generale della grafica (ma non dell’estetica in sé, che comunque esibisce dei disegni niente male), ci si farà trasportare in ore piacevoli in compagnia di una sfida molto impegnativa.Dal punto di vista del comparto audio, come prevedibile, le riflessioni sono poche: oltre alle musiche di accompagnamento, che in ogni caso riescono a sottolineare il passaggio dall’esplorazione alla battaglia, non sembrano essere presenti altri spunti di riflessione degni di nota.

sabato 2 gennaio 2016

Party Hard

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Strategico

  • Sviluppatore:Pinoki Games

  • Data uscita:25 Agosto 2015

     

     

    La violenza nei videogiochi è un tema estremamente delicato da trattare. Se non ben contestualizzata essa rischia di divenire un'arma a doppio taglio che, oltre a orde di giocatori assetati di sangue, può attirare anche critiche piuttosto forti. Questo è il caso di Hatred, un gioco pubblicizzato come la quintessenza della carneficina, ma che ha offerto ben poco sul piano ludico ed è stato letteralmente massacrato dalla critica specializzata. Esiste però anche un rovescio della medaglia: titoli come Hotline Miami, che ha uno stile molto simile al gioco di cui a breve andremo a parlare, inseriscono l'omicidio in un contesto ludico fresco, divertente e impegnativo. Party Hard tratta l'argomento "omicidi di massa" in maniera leggera e scanzonata, senza prendesi troppo sul serio e non rischiando più di tanto sul piano morale ma mettendo in piedi uno stealth piuttosto particolare. Scopriamo insieme se vale la pena partecipare a questa festa.
    Per me un vodka lemon e per il mio amico una coltellata tra le scapole
    In questo gioco vestiamo i panni di uno spietato serial killer desideroso soltanto di avere un po' di pace e tranquillità. Il modo migliore che il protagonista ha escogitato per ottenerle è quello di imbucarsi a delle feste ed eliminare sistematicamente tutti i partecipanti con il suo fidato coltello. 
    Il titolo presenta un gameplay votato allo stealth e il modo migliore per portare a termine il nostro massacro è quello di sbarazzarci dei malcapitati quando nessuno ci può vedere, occultando poi i cadaveri in alcuni spot specifici, come cassonetti della spazzatura o tombini, dove rimarranno sepolti per sempre. A volte però caricarsi il corpo in spalla e trasportarlo è rischioso, in questi casi è meglio lasciarlo dove si trova e allontanarsi velocemente, per non destare sospetti. Nel caso in cui uno degli invitati dovesse notarlo però, correrà subito a chiamare la polizia. L'agente, una volta arrivato alla festa, si occuperà di certificare il decesso ma senza tentare di arrestarci. Se invece si viene colti in flagrante a commettere il misfatto lo sbirro ci inseguirà e tenterà di catturarci, ponendo fine alla partita in caso di successo. Questa meccanica risulta poco rifinita in quanto durante il primo inseguimento è fin troppo facile seminare l'agente, mentre dal secondo in poi è praticamente impossibile darsi alla macchia. In nostro aiuto ci vengono le scorciatoie, particolari passaggi che permettono di spostarsi da un punto all'altro della festa, come botole o finestre, non utilizzabili dai tutori della legge e che semplificano almeno in parte le nostre fughe. Non è possibile però abusarne poiché, dopo averle sfruttate un paio di volte, farà la sua comparsa un tizio vestito come Super Mario, il quale bloccherà l'accesso al varco. Altro elemento in grado di darci man forte sono alcuni oggetti dello scenario che possiamo riconvertire in trappole. Queste vengono generate randomicamente, ma dopo solo alcune partite avremo già imparato a riconoscerle e sfruttarle tutte. Un peccato che, a parte pochi casi in cui gli effetti sono devastanti, siano poco diversificate e che la loro attivazione non porti sempre al risultato sperato. In alcuni schemi inoltre sono presenti delle valigette contenenti oggetti ad uso singolo come granate fumogene, bombe o un abito di ricambio, tutta roba di grande aiuto nello sbrogliare situazioni complicate. Come se la polizia non fosse abbastanza, ad alcune feste particolarmente esclusive è necessario aggirare i buttafuori, i quali non esiteranno a prenderci a calci una volta entrati nel loro raggio visivo, mettendoci fuori combattimento.
    Party Hard è realizzato con l'ormai abusata pixel art, ma dobbiamo ammettere che in questo caso risulta piacevole, almeno per quanto riguarda i livelli. Lo stile grafico mostra però pesantemente il fianco durante le cutscene di intermezzo in cui seguiremo la storia dal punto di vista del detective John West, incaricato di porre fine ai nostri massacri. La visuale a volo d'uccello restituisce una visione d'insieme piuttosto buona e i modelli degli invitati si distinguono spesso per un gradito citazionismo. Le varie feste, anche se afflitte da un level design troppo simile le une alle altre, sono ben caratterizzate e possiedono ambientazioni ispirate. Una nota di merito va alle musiche, non di livello superlativo, ma che ben si adattano all'anima festaiola del titolo, proponendo una colonna sonora dance anni '90 del tutto azzeccata. Purtroppo Party Hard pecca nel gameplay, frustrando il giocatore con una difficoltà troppo legata ad eventi casuali e spingendolo ad agire con una prudenza che uccide il ritmo di gioco. Spesso infatti risulta più proficuo rintanarsi in un corridoio poco frequentato, magari in cui campeggia un comodo cestino dei rifiuti in cui gettare i cadaveri, piuttosto che aggirarsi per la festa e colpire al momento buono. Rimanere a camperare aspettando la nostra preda da uccidere lontano da occhi indiscreti è il modo migliore per sfoltire il grosso degli invitati, ma di sicuro non è molto divertente. Se aggiungiamo poi che la randomicità degli eventi rende alcune partite molto più ardue di altre e che la difficoltà è tarata verso l'alto, l'attendere stoicamente diventa un must per non rischiare di ripetere lo schema troppe volte. Una volta catturati dalla polizia o messi KO da un buttafuori infatti, saremo costretti a ricominciare da capo, con tutti gli invitati scatenati sulla pista da ballo invece che riversi in una pozza del loro stesso sangue. Per quanto riguarda la longevità il titolo presenta una dozzina di feste da completare, più sette livelli extra aggiunti con il recente update, questi sono rivisitazioni degli schemi precedentemente affrontati. Ogni location è terminabile circa in una decina di minuti ma vi assicuro che è necessario affrontarle varie volte prima di concluderle con successo.

Speedway Grand Prix

  • Piattaforme:PC

  • Genere:Sportivo

  • Sviluppatore:SoftPlanet

  • Data uscita:1 dicembre 2015

     

     

    Le gare di speedway rappresentano una affascinante variazione sul tema delle classiche corse su due ruote a cui il pubblico italiano è abituato: si corre su ovali, in gare da quattro partecipanti, con moto che non hanno freni e derapano in maniera esagerata. FIM Speedway Grand Prix 15, sviluppato da Techland, tenta proprio di riproporre questo mondo spericolato e appassionante. Andiamo a vedere se il titolo in questione può risultare interessante anche a chi non è pratico di questa tipologia di corse.

    Grazie a FIM Speedway Grand Prix 15 è possibile prendere parte a diversi eventi del circuito speedway; appena avviato il gioco per la prima volta, il titolo chiederà di compiere una scelta (modificabile in seguito) tra la modalità arcade e una più simulativa. Come vedremo nel paragrafo dedicato al gameplay, si tratta di una decisione che cambia in modo abbastanza importante l’impostazione del gioco, quasi come se si trattasse di due titoli distinti.
    Parlando delle possibilità di gioco, dobbiamo dire che il titolo manca di una modalità carriera che permetta di creare il proprio pilota personalizzato, scegliendo magari il proprio team e firmando accordi con gli sponsor. L’opzione di gioco più articolata, allora, è quella che consente di vivere i vari eventi della stagione 2015 con uno dei piloti ufficiali presenti. Per ogni gara, in effetti, è possibile dedicarsi alla manutenzione della propria moto, definendo il setup e acquistando nuovi componenti. La qualità, però, costa, e per migliorare il proprio mezzo sarà allora necessario accumulare fondi, ottenibili grazie ai buoni risultati rimediati su pista. Ogni gara, a questo proposito, segue la struttura reale delle gare di speedway: sedici piloti si sfidano in venti batterie, al termine delle quali risulta vincitore il pilota con il migliore punteggio.
    Le altre modalità di gioco consentono di partecipare a un evento singolo, oppure a una batteria estemporanea; queste due opzioni sono disponibili peraltro anche in versione multiplayer, di modo da poter sfidare altri giocatori. Durante le nostre prove, per la verità, riuscire a trovare altri tre centauri virtuali è stata impresa impossibile, e spesso ci siamo dovuti accontentare di gareggiare contro un solo avversario reale, e altri due piloti controllati dalla IA.

    Simulazione o arcade?

    Dicevamo in precedenza che la scelta tra simulazione e arcade va a cambiare notevolmente l’esperienza di gioco. Per iniziare a giocare, evidentemente, consigliamo caldamente di optare per l’opzione arcade, che semplifica notevolmente la guida e il controllo del proprio mezzo. Tutto quello che bisognerà fare, scegliendo questa impostazione di gameplay, sarà allora accelerare e derapare al momento giusto senza preoccuparsi tanto del setup della propria moto (comunque modificabile). La stessa intelligenza artificiale, difatti, non offrirà quasi mai una resistenza agguerrita alle nostre scorribande vittoriose. Le difficoltà di questa modalità, allora, risiedono sostanzialmente negli errori che potranno essere commessi dal giocatore: urtare un altro pilota, sfiorare il bordo interno della pista, oppure cadere dalla moto, interromperanno anzitempo la nostra gara.
    La modalità simulazione, invece, è dedicata a chi non si scoraggia facilmente: scegliendo questa opzione di gioco, infatti, la difficoltà sale in maniera importante per tutta una serie di fattori. Per prima cosa, la gestione della partenza è differente dalla controparte arcade, e un corretto stacco della frizione sarà necessario non solo per partire con tempismo, ma anche per non far spegnere la moto. Viene introdotta inoltre la gestione del peso del proprio pilota, che dovrà alzarsi e abbassarsi per guadagnare o diminuire velocità; va ricordato, infatti, che per affrontare le curve dei tracciati bisognerà per forza derapare, e non si potrà rallentare più di tanto, visto che le moto sono sprovviste di freni e marce. In fase di derapata, poi, bisognerà stare attenti all’apertura del gas, visto che una accelerata troppo potente può portare a degli high side notevoli. I contatti con gli altri piloti o col bordo pista che in modalità arcade vengono perdonati, poi, nella simulazione si tramuteranno in cadute fragorose, e dunque in ritiri. Si tratta quindi di una esperienza di gioco che ci ha in qualche modo sorpreso per la sua profondità e spietatezza: FIM Speedway Grand Prix 15 non ammette errori, né imprecisioni di sorta, ed è sempre pronto a squalificare il giocatore per la minima infrazione. C’è da dire però che, una volta riusciti a imparare a come derapare con profitto, e soprattutto dopo aver capito cosa fare per non venire squalificati ogni cinque secondi, il titolo mostra una difficoltà bassa, con una IA poco incisiva. Considerato che la modalità più articolata del gioco non è altro che una serie di gare su ovali, poi, si può comprendere come la ripetitività sia dietro l’angolo. Il titolo, in teoria, introduce anche delle variabili tattiche legate ai circuiti, ma il loro impatto sembra essere trascurabile; i vari tracciati, infatti, subiscono gli effetti del passaggio delle moto, con il risultato di avere condizioni di aderenza differenti. La gestione del grip è fondamentale, soprattutto nelle curve: per ogni tracciato, infatti, il gioco ci informerà su quali siano le zone che forniscono la migliore resa in termini di aderenza, di modo da poterle sfruttare a nostro vantaggio. Tutti questi elementi sono presentati in maniera molto gradevole, ma in termini di gameplay non sembrano avere tutta questa importanza, anche in modalità simulazione, proprio perché la IA non sarà mai così incisiva. Sia chiaro, se si sbaglia partenza e l’impostazione della prima curva, è probabile che non si riuscirà a rimontare nemmeno una posizione; in effetti, la IA sbaglia poco e non si discosta dalle traiettorie ideali, ma il concetto di fondo è che se si riesce a non compiere errori, la vittoria sarà spesso nostra amica.
    Dal punto di vista della presentazione FIM Speedway Grand Prix 15 è un prodotto estremamente curato e preciso. Sono presenti le foto dei vari piloti, i filmati introduttivi dei gran premi, nonché la ricostruzione minuziosa dei tracciati, e addirittura la telecronaca in inglese. Il gioco, sotto questo punto di vista, non ha veramente niente da invidiare a titoli sportivi e motoristici più conosciuti, e propone un’esperienza che verrà molto apprezzata dagli appassionati di speedway.
    Parlando della grafica, il gioco offre una rappresentazione tridimensionale piacevole e definita quanto basta, soprattutto per quanto riguarda i circuiti, ben differenziati tra di loro. Sia gli ambienti chiusi che quelli aperti, a questo proposito, appaiono curati e senza particolari difetti.
    Il comparto audio, lo ripetiamo, verte soprattutto sulla presenza di una telecronaca in inglese che, tutto sommato, riesce a non essere ripetitiva nel breve tempo; per il resto, sia i rumori ambientali che le musiche di accompagnamento non offrono particolari spunti di riflessione.